INDIAN TRAIL 39/a: L'uccello? Vola.

INDIAN TRAIL 39/a: L'uccello? Vola.
A Kabul si riposa bene, le stanze degli alberghetti si affacciano sui cortili interni ombreggiati e movimentati da svariate galline, qualche capretto e dagli andirivieni dei vicini di stanza, molti di loro in viaggio, qualcuno stanziale. Ci sono alcuni luoghi dove inevitabilmente ci si ritrova e dove si formano alleanze e si disintegrano amicizie e amori, dove vengono scambiate informazioni e piccoli tesori, come libri e indirizzi, storie e avventure.
"Ehilà, italiano! " Chi mi chiama è un barbuto genovese dai capelli lunghissimi, sta seduto a un tavolo del tea-shop in compagnia di uno yogurt e di un tipo piccolo piccolo, dotato di bandana rossastra e di numerosi orecchini e altre appiccaglie che per quanto lui si sforzi non riescono a imbellirlo.
"Dov'è che stai andando? " Mi siedo, è bello sentir parlare italiano.
"Herat " rispondo "Sto tornando in Italia. E voi? "
"Herat anche noi. Partiamo domani, magari ci fermiamo un paio di giorni a Kandahar… Dobbiamo incontrare due amici che son passati da Quetta… "
Quello piccolo ha l'occhio offuscato e non mi pare tanto sveglio; qualche volta è piacevole percorrere tratti di strada in compagnia, ma questi due non mi piacciono abbastanza. Fra l'altro quell'accenno a Quetta mi fa pensare che vogliano passare il confine con l'Iran portandosi dietro dell'oppio, come nella più pura tradizione della Via della Seta. Ma gli iraniani non onorano più questo antico costume e anzi sono famosi per avere in grande odio i contrabbandieri, e se per disgrazia pescano il genovese, preferisco essere da un'altra parte. Penso che rimarrò ancora qualche giorno in quest'oasi pacifica prima di prendere la via del sud, verso Kandahar e la Persia.
Kabul ospita molti occidentali che vi sostano per un po': la città è accogliente, si mangia benissimo e si trova più o meno a metà del lungo viaggio verso l'Europa. Ottimo luogo per soffermarsi e riprendere fiato.
Ho occupato una stanzina nella stessa Guest House dell'andata, e mi dedico a rammendi vari e alla cernita di oggetti che potrebbero imbarazzarmi al confine con la Persia. Sono piuttosto abile con ago e filo, o almeno mi destreggio: la taschina segreta è a posto, ma l'orlo dei pantaloni è sfilacciato. La stoffa di cui son fatti proviene da un copriletto a strisce, non molto elegante. Penso che prima di rientrare in Europa dovrò rimpannucciarmi, forse tagliare qualche po' di capelli e aggiustare la barba.
Mi libero di alcune cosine che mi sembrano ormai inutili se non dannose. Ho ancora un piccolo chillum, bello pulito ma che potrebbe sembrare offensivo agli occhi dei Persiani al confine. Lo regalerò a qualcuno che viaggia in senso contrario.
Non mi pare che carte geografiche e quaderno di appunti siano pericolosi, e anche le bottigline con le polveri di Benares e i pezzetti di legno di sandalo che sto intagliando sembrano inoffensivi. C'è una sciarpa di seta bianca presa a Delhi, per mia madre. Le scarpe da trekking sono rimaste in Nepal, e a parte la scatolina dei pastelli non c'è altro. Ah, sì, "Barnaby Rudge ", di Dickens.
Decido che a Herat mi farò cucire un bellissimo paio di pantaloni.
Nella piccola hall dove gli ospiti della Guest House si ritrovano a sorbire il tè c'è un gruppetto variopinto che sta rapito ad ascoltare una storia raccontata da… “Ah! Ecco, mi pareva di riconoscere la voce! “
Happy Brunette, barba e copricapo onnipresenti, si alza e mi abbraccia stretto, e mi da qualche pacca sulle spalle. Si gira verso il suo pubblico: “Questo è Scudo, l'italiano di cui vi parlavo. S'è girato mezza India, se volete sapere qualche segreto o vi serve qualche dritta, chiedete a lui.”
Ma il pubblico, tre belle ragazze e due americani dall'aria un po' naif, è in attesa che il racconto di Happy riprenda: così mi siedo anch'io, poso la mia teiera e mi accomodo ad ascoltare.
“Dovete sapere che io sono sempre stato un mercante. L'isola dove sono nato, la Sardegna, è stata per millenni una terra di navigatori, gente che sfidava i Romani, i pirati, i Saraceni per trafficare le merci per tutto il Mediterraneo e oltre. Ce l'abbiamo nel sangue, noi sardi.
Be', qualche anno fa, passando da queste parti mi sono accorto che i piatti di terra povera che qui usiamo tutti i giorni erano molto simili ai piatti europei del cinquecento, sia per l'impasto che per le decorazioni. Sono belli robusti, semplici, con poche pennellate a decorare… Sapevo che in Italia, alle fiere antiquarie, ne avrei venduti quanti ne avessi portati…” Mi distraggo, conosco già la storia. Lascio che la voce di Happy mi culli in un lieve dormiveglia, finché sento che sta aggiungendo un pezzo inedito al racconto…
“…Il container era bello pieno, ma aveva ancora numerosi spazi e anfratti vuoti, e questo sarebbe stato uno spreco.”
Happy Brunette si sofferma a sorseggiare un po' del tè dorato che versa dalla teiera. Sogguarda gli astanti per cogliere segni di noia o stanchezza, ma non ce ne sono. Il buon affabulatore non teme distrazioni.
“Queste sono terre speciali, ci sono numerosissime miniere di pietre preziose e semipreziose. Bisogna ricordare che il mondo delle pietre preziose è proibito ai dilettanti, soprattutto se occidentali: sappiatelo e se mai vi venisse l'uzzolo di provarci, abbandonatelo subito. So di una famiglia in Italia che si è vista restituire il cadavere di un figlio cui avevano cavato gli occhi, prima di farlo fuori. Commerciava in diamanti.
Ogni pietra preziosa proviene da una "radice", un pezzo di roccia che viene scartato perché inutile: se ne apprezza solo la parte scintillante e priva di difetti, quella che poi viene pulita e tagliata e commercializzata, il rubino, lo smeraldo, lo zaffiro… Nei retrobottega degli artigiani che fanno le prime selezioni ci sono cumuli di radici, che sembrano in tutto e per tutto pezzi di pietra e pietrisco, cosa che infatti sono.”
L'argomento pietre preziose sembra aver catturato ancora di più l'attenzione del pubblico. Ci vuole un po' di tè.
“Le radici di pietre preziose non valgono nulla, ma contengono i pigmenti delle pietre stesse: verdi smeraldi, rossi rubini, zaffiri blu, gialli topazi, azzurri turchesi…. Così, avendo degli spazi vuoti nel container, li ho riempiti di cassette di inutile pietrisco che gli artigiani erano ben felici di regalarmi purché lo portassi via.
In Italia, grazie a quelle polveri, ero l'unico in grado di creare i colori da decorazione della porcellana con vera polvere di pietra preziosa. Proprio come si faceva duemila anni fa. I colori che si ottengono dopo varie procedure sono meravigliosi, oltre che introvabili: ma questa, come si dice, è un'altra storia.”
Sia pure con un po' di rammarico gli altri si ritirano nelle loro stanze, e rimaniamo Happy e io, con il nostro amato tè.
“Be', che fai? Sulla via del ritorno?”
“Sì, ancora qualche migliaio di chilometri e poi sarò in Italia. Chissà cosa sta succedendo laggiù.”
“Ti dirò, non lo so e non me ne importa niente. Adesso devo organizzarmi, ho delle spedizioni da fare: ho ancora un bel po' di tappeti da un magazziniere, e anche piatti. E poi ho rispolverato una antica invenzione… Ecco, guarda…”
Da una tasca della borsa estrae un oggetto dorato, dev'essere ottone, sembra un fiore appiattito fatto di vari pezzetti di filo d'ottone ricurvo. I pezzetti sono collegati fra loro con perline colorate, una per ogni piccolo giunto: nelle mani di Happy l'oggetto comincia a prendere vita, i giuntini cardanici permettono molti movimenti…
“Ecco, vedi, questo è lo Zero, l'Infinito da cui tutto ha origine” l'oggetto è diventato un cerchio circondato da petali… “Lo zero implode, vedi, per l'energia Yin, ed esplode, per l'energia Yang…” le abili dita danno forma a una sfera che sembra risucchiarsi verso l'interno per poi riaprirsi magicamente. La descrizione procede e l'oggetto prende tutte le forme descritte, sembra vivo. È davvero ipnotizzante, penso che Happy abbia scovato un articolo che lo farà ricco.
“Fantastico, Happy. Davvero. Farai una fortuna. Come si chiama?”
“Lo chiamerò Mandala, almeno credo. È un bel nome, si ricorda bene e poi in fondo questo è davvero un mandala.”
Il tè è dolce, ambrato e profumato. Ce ne versiamo un po' e chiedo:
“E tua moglie e il piccolino? Sono ancora a Kathmandu?”
“No, no: sono già in Italia. Abbiamo regalato il forno delle pizze e il know-how relativo a una coppia di italiani che vorrebbero fermarsi in Nepal, e poi loro hanno preso un aereo, da Kathmandu a Delhi e da lì a Roma. Penso che quando li raggiungo andremo a stabilirci in Toscana, o in Umbria, vedremo. E tu?”
Bella domanda, alla quale non ho risposta.
“Non ne ho idea. Mi sento un po' come un aquilone, trattenuto appena da un filo legato non so dove… Sai, ho tagliato tanti di quei ponti alle mie spalle che mi sembra che non esista più una strada certa, so solo che non c'è nulla a cui ritornare. Nessuno mi aspetta. Ti dirò: mi sento impaurito, ma il bello è che mi sento libero.”
È vero, mi sento libero: tuttavia una caratteristica della libertà sta nell'assenza di legami e di ancoraggi sicuri, con la conseguente responsabilità di una navigazione a vista in un mare infinito.
Il tintinnìo delle carrozzelle di Kandahar, il soffuso pulviscolo rosa e oro di Herat, la dovizia di frutta secca di Kabul… si raffina e si distilla la memoria dei luoghi, come un bagaglio che lungo il percorso si semplifica e sintetizza i mille dettagli in poche parole d'ordine: il pesce? Nuota. L'uccello? Vola. Il Nepal? Il Daulaghiri che risplende nel tramonto himalayano.
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