INDIAN TRAIL 52: Charles.

 INDIAN TRAIL 52: Charles.

A Manhattan sono ospite del mio vecchio amico Charles, che negli ultimi anni ha fatto fortuna. Charles è inglese, ci siamo conosciuti a Roma in Trastevere ai tempi del Folkstudio. Lui all’epoca faceva l’aiuto regista in un film di Pasolini, Medea, e durante le riprese aveva girato un lungometraggio per documentare lo stile di Pasolini e le tecniche del Maestro. Il titolo del suo lavoro era “A Film by”, e io ne avevo composto la colonna sonora utilizzando sistemi e metodi piuttosto innovativi per l’epoca, cioè il ‘68.
Poco dopo Charles si trasferisce a New York, dove ha modo di far proiettare “A Film by” alla Rizzoli Hall di Manhattan. Da allora siamo rimasti ottimi sia pur lontani amici.
Nei suoi primi mesi a New York per campare Charles fa il tassista, e dopo qualche tempo viene raggiunto da suo padre Frederick, un signore in blazer blu di professione artista squattrinato che finora è sopravvissuto chissà come in Brasile, anche grazie alla moglie medico. Arrivato a New York e riunitosi al figlio, essendo entrambi dotati di estro creativo e di una notevole dose di iniziativa i due decidono di mettere in piedi un’attività artistico-commerciale che prevede la fabbricazione di arredi per interni come lampade, abat-jours, mobiles e altro. Un giorno si accorgono di aver bisogno di un materiale che non esiste in commercio e con caratteristiche particolari: non deve frantumarsi se esposto al gelo, non deve puzzare se viene riscaldato da una lampadina, deve potersi colorare e mantenere i colori… Cominciano a sperimentare con delle plastiche e dopo un po’ di tentativi scoprono un composto finora sconosciuto che risponde a tutte le loro esigenze e molte altre ancora. Lo brevettano e cominciano a produrlo. Si chiama Vitricor ed è fantastico: si può piallare e segare come fosse legno, si fonde in qualsiasi forma, prende qualunque colore ed è perfettamente lucido e trasparente come cristallo. Se ci si dimentica una sigaretta accesa su un ripiano per parecchio tempo non rimangono segni di bruciatura, a differenza di analoghi come la formica.
Il vitricor viene prodotto in fogli di tre metri, lunghi quanto si vuole e spessi mezzo centimetro: ogni foglio ingloba un disegno completo il cui originale è inserito in un computer che comanda tutto il processo. Il risultato è stupefacente, i fogli sono luminosissimi quasi avessero una fonte di luce interna e sembrano davvero di cristallo.
A casa di Charles c’è un wall-system, cioè un armadio a muro che copre tutta la parete, che quando è tutto chiuso presenta uno splendido enorme effetto cromatico che da terra parte grigio scuro per addolcirsi salendo e fondersi in un rosa che via via si addensa fino a diventare un caldo rosso intenso. Le porte e scomparti vari aprendosi sottraggono per qualche momento piccole parti del disegno salvo ricomporlo appena chiuse. I mobili vengono fabbricati in un grande capanno nel New Jersey, dove Charles tratta gli operai come fossero suoi figli, pur essendo più giovane della maggior parte di loro. Anche il vitricor è prodotto nella stessa fabbrica e da lì i fogli vengono spediti in tutta l’America. A New York in piena Manhattan c’è la show-room di mille metri quadri con una completa esposizione dei loro lavori: è davvero impressionante per la varietà delle applicazioni, che vanno da interni doccia e bagni sagomati a tavoli e arredi da cucina, salotti e armadi a muro… alta la qualità dell’esecuzione, buon gusto nel design, colori fantastici. Prezzi altissimi e un successo ben meritato.
Charles va su e giù con la sua Corvette da casa alla fabbrica mentre Frederick si occupa della show-room e dei clienti, e con la sua signora vive in un grande appartamento in Park Avenue, non proprio con vista sul parco ma a pochi passi dal luogo più ambito di New York. Frederick ed io diventiamo amici e dopo qualche giorno vengo invitato a trasferirmi da loro dove c’è una bella stanza inutilizzata dove gli ospiti possono essere del tutto indipendenti.
Ho una lunga lista di gallerie d’arte tratta dall’elenco del telefono e con la mia valigetta comincio a passeggiare per le vie di Manhattan cercando di trovare le mie prede. Scopro che molte delle gallerie sono in realtà delle stanze su piani ben lontani dalla strada, in case e grattacieli labirintici dove quando finalmente trovo la stanza giusta vedo quasi sempre che non è affatto giusta, almeno per me. Sembrano tutti specializzati e nessuno specializzato in incisioni: qualcuno tratta solo opere di dimensioni enormi, qualcun altro esclusivamente serigrafie, un altro solo ritratti… Decido di provare le vere gallerie, quelle classiche con accesso dalla strada e dove si entra per ammirare le opere esposte. E’ così che trovo la gentile direttrice di una galleria piuttosto raffinata, una signora elegante e cordiale che si innamora subito delle acqueforti. É una cosa che ogni tanto accade anche nelle fiere, che qualcuno venga colpito dallo strale di Cupido davanti alle acqueforti.
La signora compera un discreto numero di esemplari e mi dice che farà vedere i lavori ai suoi colleghi a Boston, dove c’è la sede centrale di una catena di gallerie sparse per l’America di cui anche questa fa parte. Mi da il suo biglietto da visita, devo chiamarla fra un paio di settimane. Mi pare fantastico, anche se fra un paio di settimane sarò in Italia.
Continuo per alcuni giorni con i miei giri esplorativi camminando lungo gli immensi canyons urbani dove fa un caldo micidiale e l’aria è immobile. Ogni tanto riesco a vendere un po’ di lavori, abbastanza da rifarmi delle spese e da giustificare i miei vagabondaggi: ma è evidente che con questo sistema il business non decollerà a meno di insistere per chissà quanto tempo.
Stabilito questo fatto poso la valigetta e me ne vado per musei: il Moma, la Guggenheim, il mio prediletto Museo di Storia Naturale, il Metropolitan e le sale dove sono esposti i pianoforti in palissandro della Steinway e la cinquantaduesima strada, quella piena di negozi di musica e chitarre e che negli anni trenta fu una culla del jazz..
Charles, Frederick, la moglie Aurelia e la figlia Suzanne fanno un’escursione “upstate”, cioè in quella vasta parte dello stato di New York ancora selvaggia. Mi invitano ad aggregarmi. Andiamo a vedere lo stato dei lavori della nuova casa in costruzione che è il regalo di nozze per Suzanne e suo marito, un architetto giapponese.
La casa è quasi finita, ed è una casa giapponese. Gli operai sono venuti dal Giappone con attrezzi e materiali e hanno creato una struttura bellissima e del tutto incongruente che però essendo in mezzo al bosco e completamente isolata non ha modo di stridere con l’ambiente. Entriamo solo nell’atrio, che è un’immensa sala vuota con una fontana di pietra al centro e il pavimento di legno chiaro, immagino acero. Due scale salgono al piano superiore dove si intravvedono le classiche separazioni semitrasparenti… Dev’essere costata una marea di quattrini, e a me pare scomodissima e impossibile da riscaldare.
Ci fermiamo a pranzare nella casa di campagna di Aurelia e Frederick, casa più modestamente americana ma sempre bella grande, con piscina e piccolo parco.
Ritorniamo in città, ci vogliono circa due ore. La macchina di Frederick è dotata di un aggeggio appena inventato, un radar che lo avverte se più avanti c’è la polizia in agguato: per l’epoca, una vera novità.
Un paio di anni dopo riceverò una telefonata da Charles in lacrime: Frederick e Aurelia sono morti in un tremendo incidente d’auto, proprio su quella stessa strada, proprio ritornando a casa.
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Antonella Bambini

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