Indian Trail : 1: Folkstudio Files

INDIAN TRAIL 1 : Folkstudio Files     
                                                                      

         Una Lambretta verdina, una chitarra Masetti fra le gambe, una tendina canadese senza il fondo che avvolgeva poche essenziali masserizie, e seicento chilometri da percorrere prima di arrivare a Roma, dove avevo deciso di trasferirmi per fare il musicista. No problem: quando hai vent’anni il mondo è pronto ad abbracciarti dovunque tu vada.
La forza propulsiva sulla cui onda viaggiavo originava dalla nascente energia rinnovatrice di quel tempo, era il 1967: una marea che stava rinfrescando il pianeta –o almeno l’Occidente- e che, nel mio caso, aveva Bob Dylan, Paul Simon, Antonin Artaud, Wilhelm Reich, Ronald Laing, Jack Kerouac ed altri a far da Muse ed Eroi.
Siccome ognuno deve disegnare il proprio destino, altrimenti saranno gli altri a farlo, e visto che il tessuto con cui si opera è delicato, quasi un sogno, e gli altri non possono certo sognare per noi, eccomi in sella sfrecciante a sessanta all’ora per strade sconosciute, valichi appenninici e panorami cangianti. Trieste ormai alle mie spalle, ridente sul mare azzurro.
Sull’Aurelia c’è un cartello: “Rispettate i limiti di velocità”. Faccio un piccolo inchino.
         Al Camping Aurelia alle porte di Roma piazzo la mia tenda ed organizzo la mia nuova residenza. Una cassetta da frutta come tavolino, un’altra a reggere un paio di libri e candela, sacco a pelo di finissime piume, reduce della guerra in Albania dove protesse mio padre durante la guerra. La chitarra. Un minuscolo gattino che mi adotta fin dal primo giorno.
         Sono piuttosto povero, ma Gino il custode mi lascia lavorare alla concierge del camping, visto che parlo l’inglese. In cambio dormo gratis.
Essendo però venuto a fare musica, eccomi parcheggiato in via Garibaldi a Trastevere davanti ad una serranda chiusa con un sobrio cartello casalingo: “Folkstudio”. La porta accanto ospita una latteria ed una cordiale vecchina mi vende una brioche e mi informa:  “Ambe’, quelli vengono un po’ quando gli pare, ma vengono, vengono, non te preoccupa’”
Arriva uno piccolino tutto pepe, apre la serranda e mi traguarda. Entra e lo seguo. “Volevi sona’?” “Be’, sì…” “Ma… sei capace?” “Bastanza”.
Il locale è buio, c’è un ingresso con banchetto biglietteria e grande ciotola in cui viene preparata la sangrìa e poi la saletta lunga una ventina di metri e larga sei o sette, con seggiole di varia provenienza ordinate in modo da lasciare un passaggio fino al palcoscenico, che è una piattaforma di legno sollevata di una trentina di centimetri, tre metri per tre, due seggiole, un leggìo. Ad angolo retto c’è una propaggine con altre sedie per il pubblico. In tutto una cinquantina di posti.
“Dài, mettiti lì e sona, dài che sentiamo”. Io suono, un paio di accordi e poi arpeggio una delle mie canzoni. Non suscito entusiasmi. L’amico, che si chiama Mario, si avvicina e mi fa: “Aho’. vedi de darte una svegliata che così li metti tutti a dormì.”  Più che offeso sono abbacchiato. In fondo a Trieste, da cui provengo, ho suonato più volte alla radio ed ho fatto pure dei piccoli concerti…. Ma qui non contano. Qui due anni fa, nel ’65, ha suonato Bob Dylan e poi Joan Baez ed altri di mitologica statura. Capisco di non essere all’altezza, e che per il momento quel minuscolo palcoscenico mi sarà precluso. Chiudo la custodia della chitarra e torno da Mario con cui fraternizzo, e lo aiuto a preparare la sangrìa e sistemare le sedie. Questo mi garantisce l’ingresso gratuito per la serata. Come spettatore, si capisce. 
         Verso le nove, dopo uno spettacolare tramonto romano visto dal retrostante Gianicolo su cui mi sono rifugiato per una mezz’oretta a ricucire le ferite all’orgoglio, via Garibaldi si rianima ed arrivano i proprietari del locale insieme ad un gruppo di spettatori: Harold Bradley, grande, grosso e nero, Cesaroni il chimico ed un paio di deliziose fanciulle, ed alcuni musicisti che si preparano alla vicina performance. Dato che appartengo alla categoria, sia pure non proprio a pieno titolo, vado a conoscerli: Brian Tucker, alto e dinoccolato, lunghi capelli ed occhiali, americano. Gerner e Robert, un duo danese di chitarristi che mi lascerà senza fiato. Tiao, un brasiliano zoppicante che utilizza accordi da me mai nemmeno immaginati. Capisco che oggi il mio posto è fra il pubblico,
cosmopolita, eterogeneo e piuttosto entusiasta. Il Folkstudio è al completo.
         La formula è semplice, dinamica ed efficace: ogni artista ha una ventina di minuti a disposizione per suonare quattro o cinque pezzi del proprio repertorio; poi scende dal palco accompagnato da applausi più o meno vivaci e viene subito sostituito da un altro musicista. C’è un intervallo che consente un abbondante spaccio di sangrìa, poi si riparte con una seconda chance per ogni artista. Funziona tutto molto bene, non ci sono microfoni, amplificatori o altoparlanti: voce e chitarra, proprio come piace a me, e due metri e mezzo fra lo stage e le prime seggiole.
         Brian ha un librone di proprie canzoni che poggia sul traballante leggìo e da cui estrapola tre o quattro pezzi che esegue su una chitarra tutta dipinta a brillanti colori ed agitando i capelli a ritmo forsennato. Non capisco una parola delle liriche, ed il piedone che batte sul tavolato disturba più che accompagnare: ma l’insieme è accettabile, anche se la ritmica non ha finezza.
         Gerner e Robert sono tutta un’altra faccenda: Gerner è un virtuoso della tecnica chitarristica che a fine serata cercherò di farmi insegnare, il fingerpicking, e Robert è un bravissimo solista che infila graziosi riffettini e rapide escursioni sulla parte alta del manico. Al mio orecchio, eccezionali. Purtroppo cantano pure, e questo attenua la magìa della performance, soprattutto quando, a conclusione, infilano una canzone in danese.
         Il brasiliano Tiao fa accordi esotici e stranissimi, usa ritmi complicati e non mi commuove, ma piace abbastanza al pubblico plaudente. Bravo anche lui.
         Acchiappo Gerner, che è un colosso biondo e vasto, e mi faccio mostrare la miracolosa tecnica che moltiplica il suono della chitarra e la fa sembrare due strumenti perfettamente integrati. “Non è difficile –mi dice in inglese- devi alternare pollice indice pollice medio ed esercitarti.” Mi dà una dimostrazione che riesco ad imitare ed a memorizzare. L’offerta di una birra sigilla compenso ed amicizia.
         Passano i  giorni, abito nella mia tenda con il gattino Adam e vivo di pasti frugali, esercitandomi nel fingerpicking, tecnica che ben presto mi suggerisce svariate nuove canzoni e mi consente di suonare alcune delle opere dei miei eroi, “Don’t Think Twice, It’s Alright”, “It’s All Over Now, Baby Blue” ed altre di Dylan, o “Homeward Bound”,  “Leaves That Are Green” di Simon e Garfunkel, “Suzanne” di Leonard Cohen, che traduco in italiano grazie ad un’innata ma fedele disinvoltura, la stessa che usavo al liceo traducendo in versi i lirici greci per coprire le mie lacune grammaticali.  Il mio repertorio arpeggiato e soporifero viene pian piano abbandonato e sostituito da nuove canzoni, più dinamiche, più interessanti. Le mani imparano ad essere precise, le dita a toccare le corde traendone un suono pulito: ogni nota deve essere percepita senza sbavature. Il fingerpicking produce moltissime note, guai a far confusione.
         Dopo un mese mi ripresento a Mario, factotum del Folkstudio e primo filtro a guardia della qualità degli artisti. Gli faccio sentire due o tre canzoni. Vengo ingaggiato per l’indomani sera.

         Il punto di vista dal palcoscenico, com’è ovvio, è molto diverso da quello della platea. Essere in scena, soprattutto quando sei da solo, implica che, dopo aver superato il panico ed avendo stabilizzato il paralizzante tremore alle mani, tu sia pronto ad avvolgere il pubblico con il mantello stellato della tua arte: e questo, nella mia esperienza e parlando soprattutto di musica, avviene con i primi due o tre accordi. L’armonia di quegli accordi conquista il cuore e l’attenzione dei presenti, li unisce fra loro e li avvicina creando un impalpabile ed invisibile ponte, un lieve sentiero di magica condivisione.
         Ogni tanto nella minuscola platea, accomodati sulle dure seggiole, compaiono personaggi abituati a poltrone ben più morbide, possibilmente foderate di velluto di seta, gente elegante e nota nel mondo dello spettacolo. Pietro Germi, regista, si gode la serata estemporanea mentre l’odoroso fumo del suo sigaro toscano eternamente acceso collabora alla creazione di nuvole azzurrognole che rendono l’atmosfera semitrasparente e semirespirabile. Vedo Donyale Luna, una bellissima e famosa modella insieme a Gyorg, tedesco corrusco ed avvenente: traballano un po’ mentre cercano posto. Troppa sangrìa?
Compare a volte un giovane alto e quasi biondo, che si siede ed osserva ed ascolta, molto attento a ciò che accade sul palco. Forse trae ispirazione anche da qualcuno dei miei lavori: in fondo a ben guardare io sono uno dei primi folksingers italiani. Certo, esistono già artisti bravissimi, come ad esempio De Andrè per dirne uno: ma non sono al Folkstudio e comunque si contano sulle dita di una mano. Scriversi le canzoni, liriche e musica, suonarle da soli e cantarle in scena è tutto sommato inusuale, ed uno come lui, che in seguito diventerà famoso, può forse giovarsi di un esempio per il momento abbastanza raro. Si chiama Francesco De Gregori, forse l’avete sentito nominare, fratello minore del mio grande amico Luigi –in arte Grechi-.
Noi siamo gli apripista di una nuova generazione di folksingers, o cantautori, per dirla all’italiana, ed anche se non sta a me sottolinearlo siamo noi ad aver piazzato le pietre su cui molti successivi autori hanno posato i piedi per attraversare il ruscello dell’avventura musicale.

         Sulla scena si alternano artisti molto diversi fra loro, Rosa Balestrieri, il Duo di Piadena, Janet Smith e la sua autoarpa. Di lei si dice che abbia insegnato delle canzoni a Joan Baez, per cui è di diritto una star. Raramente si esibisce Shawn Phillips, capelli lunghissimi e biondi, anche lui una star per aver pubblicato dei dischi in America.
         Sto diventando bravetto: con Janet Smith e Robert creiamo il Trio del Nocciolo, che prende il nome dal nuovo locale aperto da poco proprio da Janet, sempre a Trastevere. Due chitarre e un’autoarpa, armonizzazioni vocali. Al Folkstudio e al Nocciolo cominciano persino a pagarmi: tremila lire a serata.

         Mio padre, dalla cui preponderante influenza mi ero sottratto con la rapida fuga in lambretta, mi ha scovato. Non so come abbia fatto, posso però immaginare che abbia mosso qualche sua pedina: in fondo è un avvocato dello Stato, è un’autorità e conosce un sacco di gente. Fatto sta che mi arriva una lettera al Camping Roma, e la leggo insieme ad Adam il gatto. Ne sintetizzo qui il contenuto: in pratica riconosce il mio diritto all’autodeterminazione (entrambi i miei genitori sono intelligenti e sensibili, mia madre fra l’altro maestra di pianoforte e mio padre autore di una ventina di libri fra romanzi, saggi e note poetico-filosofiche) e propone un patto: mi reiscrivo all’università, continuo a sperimentare nel mondo musicale e ricevo un piccolo stipendio mensile che mi permetta di vivere dignitosamente, sia pure con capelli ormai cresciuti fino alle spalle e baffi e barbetta caprina. Sottoscrivo il patto. Mi iscrivo a Filosofia, di cui non m’importa un fico, ma un patto è un patto, soprattutto se lo si fa con un avvocato dello Stato dal ferreo cipiglio, perciò do persino qualche esame, come Antropologia culturale che preparo in due giorni e Psicologia dell’età evolutiva, che mi impegna per altri due. Considero onorato il patto, e posso dedicarmi ad altro.
         Sono ricco, riavvolgo la tenda, saluto il gatto Adam che ormai è grandicello e campa da signore coccolato dai villeggianti e sulla lambretta verdina mi trasferisco in un appartamento in via Garibaldi, proprio di fronte al Folkstudio.
         Ormai posso permettermi di frequentare la bettolina di Augusto, in Piazzetta Renzi, dove servono anche le mezze porzioni di amatriciana e pomodori col tonno. Trastevere è una piccola enclave che accoglie artisti di varia natura: pittori, attrici, musicisti, scrittrici e scrittori, registi, sceneggiatori… Le case circostanti ospitano una fauna variopinta e hip, ed i tavoli da Augusto sono molto frequentati. Ho scoperto che un mio lontano parente, aiuto regista di Valentino Orsini e politicamente impegnato, vive lì accanto in Vicolo del Cinque e mi aggrego all’allegra combriccola del suo tavolo. Alle prese con i piatti che Augusto sgarbatamente sbatte sulle tovaglie di carta ci sono più o meno sempre gli stessi avventori: Luis del Pizzo, pittore italo scozzese dalla carismatica barba grigio ferro ed occhi socchiusi dietro occhiali dalle spesse lenti, dispensatore di incessanti ironiche battute su tutto e tutti; Michele della Garfagnana, i cui discorsi ondeggiano fra il politichese più spinto e l’apprezzamento corteggiante per le belle ragazze straniere che sempre accompagnano Luis. Michele viene da una famiglia toscana in cui i figli danno del lei alla madre. E poi c’è il Pula, capobanda di un gruppo di guappi locali: la sua autorevolezza è resa evidente dal modo in cui tratta i ragazzotti che sommessamente gli si avvicinano, immagino chiedendo istruzioni sul prossimo colpo.
         La mia lambretta, che parcheggio a sera sotto casa dopo qualche poco profittevole escursione all’università, viene regolarmente rubata durante la notte. La ritrovo sempre in qualche vicoletto, il giorno dopo, ma è fastidioso doverla cercare. Così un giorno a pranzo dico al Pula: “Ascolta, Pula, di notte mi fregano sempre la lambretta, non voglio sapere perché e percome ma per favore, potresti fare in modo che la mattina me la riparcheggino dove l’hanno trovata? Il vino lo offro io.” “No problem. Augusto, portace un mezzo litro!”  Da allora in poi la mattina la lambretta è sempre al suo posto.  
         Quello in via Garibaldi è un appartamento grandicello e può ospitare più persone. Una delle stanze viene subaffittata ad un mio vecchio amico e compagno di scuola, Mario Luzzatto Fegiz –poi giornalista e critico musicale- ed un’altra a Gianni, giovane direttore di galleria d’arte in centro e poi professore universitario, un’autorità nel campo dell’arte moderna. Io scrivo canzoni e suono al Folkstudio.
         Un bel giorno incontro una ragazza, molto carina ed intelligente: Emma Baumgartner. Decidiamo di impegnarci in una produzione radiofonica per Rai 3, perché lei possiede le entrature necessarie ed abbiamo più o meno la stessa idea sugli argomenti da trattare: I movimenti underground e d’avanguardia. Scriviamo i primi trattamenti (sono le brevi stesure che contengono già, sia pure in grandi linee, la coreografia di tutto il lavoro). Vengono accettati. Produciamo cinque puntate sulle avanguardie underground europee ed americane in Musica, Letteratura, Arte, Teatro e Cinema. Mezz’ora di testo per ogni puntata, più la musica.
        
         Una bella sera, dopo aver suonato tre o quattro canzoni ed un paio di ragtime strumentali, mi si avvicina un tipo elegante dal viso raffinato e modi gentili. “Ciao –mi fa- sono Giorgio Gaslini. Faccio jazz, sai, al piano”. Ho la sensazione che si aspetti un riconoscimento da parte mia, per cui sorrido senza compromettermi, gli do la mano ed aspetto il seguito.
“Ti ho sentito cantare, mi piace la tua vociaccia, ed anche come stai in scena. Sto a Milano, sto scrivendo un’opera, un’opera da strada. Si chiamerà ‘Un quarto di vita’. Ci sono quattro cantanti lirici e quattro leggeri: voglio che tu  sia uno dei leggeri, se sei d’accordo.”
“Certo! Mi piacerebbe parecchio! Ma… E dove si canterebbe?”
“Ascolta, però non ne parlare troppo in giro: ci sarà una prima e quattro repliche al Regio di Parma, poi Bologna, Reggio Emilia… Insomma, giriamo la regione.”
“Be’, mi pare meraviglioso. Ci sto.” Il Regio di Parma è un teatro leggendario, impossibile resistere.
“Benissimo. Senti, devi rinforzare la voce. Va in Piazza Navona, metti la tua fidanzata da un lato laggiù e dall’altro lato canta in modo che lei ti senta.”  Mi dà un appuntamento a casa sua a Milano, Via Caminadella, per il mese successivo. Ci sono spartiti da studiare e contratti da firmare.
Faccio notare che Piazza Navona è lunga duecentocinquanta metri, ed è sempre piena di gente fino a tardi: non posso certo ululare di notte, a scanso di secchiate d’acqua ed arresto per disturbo.
“Fregatene” mi dice. “In teatro la voce deve superare la colonna di suono che si alza dalla buca dell’orchestra, volarci attraverso e raggiungere il loggione. A Parma ti tirano gli ortaggi, se stoni o se non ti sentono. I loggionisti sono dei professionisti dell’ascolto: non hanno pietà”.
“Benone –dico- e Piazza Navona sia!”
         Non possiedo una fidanzata, ma ho capito il concetto. Un cantante leggero non imposta la voce, cioè non le dà quella ‘copertura’ che camuffa, o forse dovrei dire che facilita, i passaggi di registro ed altro. Il cantante leggero quando ha bisogno di volume di solito urla. Questo però irrigidisce la laringe ed i vari delicatissimi piani esistenti all’interno della bocca, che invece deve rimanere rilassata per poter vibrare con naturalezza e quindi produrre la ‘vera voce’. Nel mio caso, la vera vociaccia.
Siccome mi vergogno un po’ ad andare in Piazza Navona in mezzo ai turisti a cantare a squaciagola vado invece ad esercitarmi al Gianicolo, cercando di far arrivare la voce fino ai Colli Albani.
         Respiro, calma, diaframma, messa di voce, volume, rilassare il velopendulo, volume, volume e direzione, respiro, calma, diaframma…Nei Colli Albani le pecore partoriscono in anticipo.
        
Il Teatro Regio di Parma ha una capienza di milleduecento posti: il Folkstudio può ospitare cinquanta o sessanta persone al massimo. Al Folkstudio mi danno tremila lire a serata, a Parma mi pagano persino i contributi. Una carriera fulminante!
Ci sono due gruppi quasi rock nel cast: I Nuovi Angeli e Peter e i Funamboli. Il protagonista è Duilio del Prete, bella voce, bel tipo, in scena si chiama Alan Persi. Fra i cantanti leggeri c’è la Franca Mazzola, già nota, Daisy Lumini detta Fischio d’oro per i suoi virtuosismi, e fra i lirici c’è Nuccio Saetta detto Fulmine ed Edgardo Coralli, con cui condivido il camerino. L’amico Edgardo prepara la voce con innumerevoli gargarismi e mi insegna alcuni trucchi del mestiere, come ad esempio ingollare un’acciuga in caso di abbassamento della voce. Capisco che, in presenza dell’acciuga a stomaco vuoto (di solito si evita di mangiare prima di andare in scena) la voce decida di ripristinarsi, prima che di acciughe ne arrivino altre. Nuccio ha una parte che gli impone di correre su una piattaforma un po’ più alta del resto del palcoscenico, saltare giù, fare due o tre passi, girarsi e morire sparato da un guappetto. Tutto bene tranne che per un particolare: quando, ormai defunto, è steso a terra, continua a tenere una gamba  tesa verso l’alto. Gli vien fatta notare l’incongruenza, e solo dopo numerose prove e rimbrotti di Giorgio “Giù quella gamba! Sei morto!” finalmente alla prova generale riesce a morire per bene.
         La sera della prima il pubblico elegante riempie la platea ed ogni ordine dei cinque livelli dei palchi. Il loggione è gremito e certamente ben rifornito di ortaggi. Io, come penso tutti noi, ho la tremarella. Sono il Ragazzo della Ballata, un disgraziato che sta in galera, imprigionato da una società corrotta e mascalzona e, seduto su una panca che rappresenta l’arredamento della mia cella, evidentemente ispirato dalla panca stessa vengo preso dall’ubbìa di cantare:  “Tavola dura, tavola di legno, legno di ciliegio, fiore di ciliegio, le tue labbra morbide… ecc.ecc.”
         Respiro a fondo e a tempo, fra poche misure tocca a me. Gaslini sta sul suo podio al di là dell’orchestra, dirigendo. Dietro di lui la platea. Dietro ed intorno, i palchi. Il temutissimo loggione è lassù, invisibile. Aspetto che Giorgio mi dia l’attacco. L’orchestra si attenua fino a quasi scomparire per lasciare spazio alla chitarra che mi accompagnerà. Alan Persi sceglie quel preciso momento per attraversare la scena (i protagonisti tendono a pavoneggiarsi) e piazzarsi esattamente fra Giorgio e me, impedendomi di vedere il segnale della bacchetta: quindi non attacco. Ma sia Giorgio che il chitarrista nella buca dell’orchestra hanno visto tutto e ripetono le misure: sta a me capirlo e recuperare disinvoltamente senza panico, respirare, maledire Alan Persi ed attaccare a tempo la strofa. In scena non sono ammessi intoppi: bisogna avere la presenza di spirito necessaria a  superare ogni ostacolo e riuscire anche a cantare bene. Se no, ortaggi in arrivo.
        
          Il Folkstudio è la piattaforma di partenza per varie escursioni musicali fuori Roma. Una meta ambita dove si viene inviati per meriti artistici è la deliziosa Positano, vera fucina hippie. Lì la figura più nota –dopo i Rolling Stones che frequentano il piccolo paradiso- è Shawn Phillips. E poi, belle fanciulle dai leggeri abiti fiorati, efebiche figure di bianco vestite, candele ed incensi a creare piccoli altari da meditazione… Una perfetta atmosfera in cui adagiarsi e rilassarsi, con uno splendido mare, musica di sitar aleggiante e profumo di spezie nell’aria.

         Un’altra opportunità per noialtri folksingers è il Festival di Spoleto: le stradine ed i localini ci ospitano volentieri, siamo un’interessante e quasi gratuita attrazione. Suono da solo e con Dick l’irlandese, suonatore di banjo.
         Trastevere è un po’ come un villaggio, dopo qualche tempo ci si conosce tutti. Talenti di vario genere frequentano piazze e piazzette, Piazza Santa Maria, con la sua bellissima ed antichissima chiesa è uno dei luoghi d’incontro, prima o poi ci ritrovi tutti quelli che conosci. Nei piccoli teatri circostanti, ad esempio La Ringhiera diretto da Franco Molè, faccio un po’ di concerti con le mie musiche ed insieme a Pippo Franco arrangio colonne sonore per pièces come “Molte voci intorno ad Oreste”, scritto da Molè per celebrare Oreste Scalzone rimasto vittima, alla facoltà di Legge, di un grave incidente provocato da una scrivania gettata da una finestra. E’ il sessantotto e siamo in piena rivolta studentesca.
         Incontro Tito Schipa jr, pianista ed ottimo compositore. Sta dando le ultime pennellate ad un’opera rock che sta scrivendo, l’Orfeo 9, e pare sia già riuscito a far entrare nella produzione Garinei e Giovannini, due pezzi grossi del teatro italiano. L’agenzia di stampa sarà quella di Lucherini e Spinola, due veri lanciatori di stars. Tito mi vuole nel cast, ed io sono ben felice di accettare. Andremo in scena al Teatro Sistina, mille e passa posti a sedere, storico teatro di Roma.
         Le prove si fanno in un vasto scantinato pieno di stanze e stanzette e nella maggior parte degli spazi si possono vedere pezzetti di scene,  effetti luminosi mai visti prima, prove di  canti ed armonizzazioni. Il cast non potrebbe essere più eterogeneo e cosmopolita: Derry, nero e con mani come badili, che fatica a batterle a ritmo –unico nel suo genere, immagino- ma che ha una presenza perfetta per l’opera. Virginie la francese, nella parte di Euridice, bella ed eterea, e Patrick il flautista, padre del loro figlioletto Guendal che gattona felice fra cavi ed amplificatori. Ogni tanto ci sono meravigiose esplosioni di luci colorate, prodotte dai Fever Lights, svizzeri, e dalle loro potenti lavagne luminose. E poi cantanti, danzatori, attrici ed attori…tutti devono saper far tutto.  
         Non ci sono soldi: i finanziatori latitano e danno qualche anticipo solo a chi insiste molto. Parecchi membri della troupe sono alla fame ed il contratto –in francese- che abbiamo sottoscritto  non prevede anticipi di sorta, ma solo un’equa distribuzione dei guadagni, tipo cooperativa, in caso i guadagni stessi si manifestino.  In caso contrario, arrivederci e grazie.
         La sera della prova generale la tensione dietro le quinte è vibrante: I produttori hanno avuto la brillante pensata di donare una confezione di profumo alle attrici ed una bottiglia di whisky agli attori. Il sipario è chiuso, la sala è gremita: la stampa, gli invitati, gli ospiti… Tutti in ghingheri ed in fremente attesa. Proibito sbirciare dalle fessure del sipario, porta sfortuna. Ci sono dozzine di cose che non si devono fare, in teatro: una variegata messe di proibizioni dovute a serpeggiante superstizione. In casi estremi, ad esempio, è successo che ii cavetti color viola contenuti in amplificatori, microfoni e consolle dovessero essere sostituiti se non si voleva che l’artista cadesse in deliquio alla loro vista.
         Martin, cantante americano brillo di whisky, entra sul palcoscenico, per fortuna a sipario chiuso, e sferra un cazzotto alla conterranea Lucy, stendendola al suolo. Panico generale: Lucy è l’unica cantante con voce impostata e lirica, essenziale per alcune parti. Sventolìo di spartiti per farla rinvenire, un sorso d’acqua, sguardi furenti verso Martin, imbambolato fra le quinte. Non importa: buio in sala, le voci in platea ammutoliscono, buio anche sulla scena. Coraggio, fra pochissimo tocca a me attraversare il palcoscenico nel buio totale evitando amplificatori, cavi e scenografie varie per mettermi in ginocchio, aprire le braccia ed intonare l’invocazione “Voglio la luce”, mentre dal buio i Fever Light fanno miracolosamente sorgere uno splendido sole. Applauso.
          Il primo applauso apre il cuore di tutto il cast, e da lì in poi lo spettacolo può gonfiare le vele.

Fine prima parte.



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