INDIAN TRAIL 40/a: Quasi Europa.

 INDIAN TRAIL 40/a: Quasi Europa.

A Herat colgo l'ultima occasione per rinnovare il mio guardaroba prima di rientrare in Europa. Il mio look da queste parti mi protegge ma so che avvicinandomi alla madre patria dovrò fare delle concessioni prima di esser fatto segno di esagerate attenzioni nei numerosi confini che devo attraversare. Visto che sono stato promosso sufi sul campo, mi terrò barba e capelli lunghi, magari un po' aggiustati: ma le braghe a striscioline, la camicia lunga fino alle ginocchia e il copricapo afghano devono sparire. Conservo la borsa di tela di Calcutta perché mi serve per trasportare i pochi averi che mi accompagnano: il diario di bordo, i pastelli, un cambio di biancheria, le bottigline di Benares, gli scacchi in fieri di legno di sandalo.
Il sarto se ne sta sul lato della strada polverosa e con dita velocissime e piede frenetico aziona la sua macchina da cucire creando camicie e pantaloni. Gli mostro la pezza di stoffa color lilla che ho comperato a Kandahar e gli spiego che mi servono dei pantaloni. Lui guarda quelli che indosso, annuisce e alza due dita a dire "Torna fra un paio d'ore ". Trovo un negozietto lì vicino e compero una camiciola verdina, mi piace il colore, e poi lilla e verde sono quasi complementari. Bisogna onorare le esigenze della moda. Certo, dovrò rinunciare alla fascia turchese che mi fa da salvadanaio intorno alla vita…
Il genovese con chitarra e capelli fino alla vita ha incollato un cospicuo pane di hashish all'interno dello strumento, e quando gli chiedo se non teme perquisizioni mi sogguarda e dice: "Non mi beccano. E poi, è un bel colpaccio!" Mi pare una follia, un rischio fuori misura. Si sa di gente che tornando col furgone dall'Afghanistan è stata fermata e messa in una stanza ad aspettare mentre il furgone, lasciato sotto il sole cocente del deserto per otto, dieci ore, cominciava a trasudare le sostanze nascoste che pian piano si fondevano ed eventualmente prendevano a colare fuori dai nascondigli. Quelli che venivano trovati con dell'eroina in discreta quantità, correva una voce mai controllata, pare venissero addirittura fucilati. Non so se sia vero, ma è noto che qui è meglio non scherzare sull'argomento.
Le eleganti braghe lilla di Herat sono ben arrotolate nella sacca, in attesa di fare un figurone una volta giunto in Europa. Nel frattempo sono ancora bardato da viandante di lungo corso: il mio look serve da lasciapassare anche qui, come se la barba, gli occhiali e il cappello afghano mi fornissero un certificato di studioso cui è inutile fare le pulci. Passo senza ispezioni.
Anche il genovese passa senza problemi, baciato dalla fortuna che aiuta gli audaci. Sulla corriera per Mashhad se la ride e canterella "Un bel colpaccio, la la la ". Dovrà superare ancora qualche confine, ma non è minimamente preoccupato. Buon per lui.
Nulla sembra essere cambiato da queste parti per quanto riguarda il poco affetto che i locali dimostrano a noi occidentali. Prezzi rapidamente gonfiati, modi un po' bruschi, soliti tentativi di vendere turchesi scadenti come fossero preziosissimi… Be', basta stare attenti e sapere che per l'astuto persiano noi rappresentiamo delle facili prede.
Il bazar di Mashhad ospita dozzine di negozi e botteghe con miriadi di turchesi esposti, alcuni dei quali hanno le dimensioni di un uovo di gallina dall'intenso, profondo colore azzurro. Ne scelgo uno, piuttosto piccolo ma perfetto, senza inclusioni e dal colore perfetto. Resisto alle pressioni del venditore che come al solito cerca di rifilarmi eclatanti pietre verdi attraversate da venature dorate, molto decorative ma prive di valore: l'astuto triestino non si fa però circuire dall'astuto persiano.
Non ho l'impressione di star ritornando da un lungo viaggio: non essendomi ben chiaro da dove sono partito ho la sensazione che dovunque io vada si tratterà di una nuova tappa, un’ulteriore sosta nel dispiegarsi degli eventi, senza una vera soluzione di continuità. Sono un po' spaesato e per nulla certo del mio futuro. Ogni tanto penso che andrò a Venezia a trovare Ferdinando, un monaco zen che ha un piccolo dojo a Murano, perché le opzioni a mia disposizione sono alquanto rarefatte ed estreme. Lo stato di sovrattempo in cui mi trovo, sospeso in un limbo privo di una direzione definita, mi appare allo stesso tempo come una ricca fonte di possibilità da cui possono sgorgare futuri molteplici, ma anche un labirinto che non riesco a visualizzare con chiarezza. Tuttavia, per molteplici che siano i futuri, se ne realizzerà uno soltanto, perché così è sempre stato: il sentiero che percorrerò sarà solo uno, e se guardando avanti mi posso sentire confuso, sarà sufficiente che mi abbandoni fra le braccia del destino, fiducioso come un bimbo che ne aspetti curioso le manifestazioni. Nella sua onniscienza il destino è madre amorevole, sceglierà sempre ciò che è giusto. È inutile dunque che io mi preoccupi: farò meglio a rilassarmi e ad assecondarlo senza cercare di influenzarne l'opera, minuscolo fuscello fra le correnti del grande fiume.
Il grande fiume mi porta attraverso l'eterno deserto fino a Tabriz e poi Erzurum: i meravigliosi colori della primavera dipingono i contrafforti montuosi che ricordo innevati e gelidi. Profumo di pane e kebab, e le ultime pagine di “Barnaby Rudge" a farmi compagnia. E poi l'Anatolia fino a Istanbul. Sono alle porte dell'Europa, praticamente a casa, se avessi una casa.
Be', non è che proprio non sappia dove andare: risalirò la Yugoslavia fino a Trieste dove abitano i miei che non sanno ancora nulla del mio ritorno, e dove mi aspettano la fedele R4 sollevata sui suoi blocchetti, e la mia amata Martin, chitarra rara e preziosa.
A Salonicco girello per le strade ormai europee, cerco di riallacciare i cerchi della memoria che in me convivono e che cominciano a fondersi. Entro in un caffè, sono affascinato dai colori brillanti delle bottiglie di liquore allineate sugli scaffali, Blu Sapphire, liquidi verdi e gialli ambrati… Sembra una grotta tempestata di pietre preziose, una ricchezza di cui certo non sento alcun desiderio, ma di cui apprezzo lo spettacolo.
La corriera attraversa la Macedonia, ancora montagne, ed entra a Nis, in Serbia, che sulla carta sembra bella grande ma che si rivela essere un paesone con un vasto gregge di pecore in sosta nel bel mezzo della piazza principale.
La strada continua per centinaia di chilometri ed è una striscia d'asfalto che, costruita su un terrapieno alto sei o sette metri, sovrasta la pianura circostante. Ai lati della strada, nei campi che costeggiano il terrapieno, ogni tanto si vede la carcassa abbandonata di un'automobile, o di un autocarro. Il rettilineo è senza fine, e una densa nebbia si solleva dai campi e si arrampica fin sulla strada. Deve succedere spesso che qualcuno voli di sotto.
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