INDIAN TRAIL 41/a: Trieste.
INDIAN TRAIL 41/a: Trieste.
Il viaggio è stato lungo abbastanza da confondermi un po' le idee in fatto di moda e penso, grazie alle braghe lilla confezionate a Herat e alla bella camiciola afghana verde con ricamo, di aver soddisfatti i dettami della convenienza europea. Perciò eccomi pronto al rientro in patria.
Sull’altopiano che abbraccia Trieste il confine di Basovizza è presidiato da un’enorme scritta che copre il fianco di una collina: “TITO” e da guardie titine con cappello e stella rossa, mitra a tracolla e sguardo intento a scrutare soprattutto i loro connazionali che rientrano dall'Italia: c'è un fiorentissimo commercio transfrontaliero perché gran parte dei beni che si trovano nei negozi triestini non sono reperibili al di là del confine. Ecco perciò un continuo via vai di macchine cariche di ogni cosa, lavatrici, buste con indumenti, valigie, elettrodomestici a non finire. Ottimo per i nostri negozianti, pessimo per l'ambiente perché ogni acquisto viene tolto dagli imballaggi, e cartoni, plastiche e ferraglie varie vengono gettate ai lati della strada che porta al confine Jugoslavo.
Nonostante le mie belle braghe violette una guardia, dopo aver studiato il passaporto con tutti quei visti alieni, mi fa aprire lo zainetto e ispeziona minutamente il contenuto. Niente droga, avanti un altro.
La bella casa dove gran parte della mia adolescenza, devo dire mio malgrado, si è svolta, sta sull'altipiano carsico, a pochi minuti dal centro di Trieste su un ettaro di terreno che i miei genitori con notevole lungimiranza hanno comperato tempo fa. Ricordo gli spari delle mine che mio nonno, preparando i buchi per la dinamite con un attrezzo detto "strangolin", cioè una lunga e pesante asta d'acciaio manovrata manualmente, faceva brillare per poi estrarre le rocce carsiche e quindi creare una fossa dove piantare gli alberi. Il Carso offre pochissime aree fertili, di solito modeste depressioni dette doline in cui nei secoli si sono accumulate le terre di superficie, con al centro uno strettissimo e invisibile camino naturale che scende in verticale, per il deflusso delle acque: alcuni di questi camini sono più larghi e molto profondi, e li chiamano foibe. Il resto del territorio è coperto da una ventina di centimetri di terra che posa su roccia calcarea profonda centinaia di metri, e da boschi di querce, carpini e pini.
All’epoca furono innumerevoli le mine necessarie a preparare le fondamenta della casa, e soprattutto la cantina sotterranea, dove mio padre preparava un vino che, sia pure da lui arzigogolato con la massima buona volontà e pur provenendo dalla vigna filosofica da lui amorevolmente impiantata dietro casa, risultava orrendo. Nessuno naturalmente osava farglielo osservare.
Sul terreno di proprietà della casa c'è una bella pineta che si apre al di là di prati verdeggianti e querce e cedri deodara, e bellissimi cespugli di sommacco rosso fuoco. Lì, una volta all'anno, i miei genitori organizzano un cocktail con decine di invitati, in restituzione di una serie di inviti ricevuti durante l'anno. Papà è una personalità nota in città, e anche se indifferente, persino insofferente e restìo alle lusinghe sociali Vip (sostenuto da mia madre che odia doversi addobbare e ingioiellare per poi partecipare a noiosi chiacchiericci mondani), almeno ogni tanto si trova a dover invitare le bella gente cittadina per intrattenerla con beveraggi e pasticcini. Nella pineta al momento girellano eleganti signore, presidenti di banche, industriali, nobildonne e cavallerizzi, tutti intenti a godersi il party.
Il destino vuole che io arrivi al cancello di casa proprio adesso, dotato di braghe lilla, capelli fino alle spalle e barba e baffi e un cencioso sacco a spalla, dopo otto mesi di India. Mi sento un po' fuori posto.
Papà mi vede da lontano, non si sorprende più di tanto, si avvicina, mi sorride e dice: "Ma non dovevi essere in Giappone? "
Mamma mi abbraccia, storce il naso e consiglia: "Sarà meglio che ti faccia una doccia: c'è un po' di gente... "
Be', tutti gli ospiti sanno che l'avvocato mio padre ha un figlio un po' sui generis, uno che non ha seguito le orme come tradizione vorrebbe e che finito il liceo e dopo qualche anno di università ha abbandonato la strada battuta per esplorare terreni ignoti. Tuttavia, avendo io frequentato in precedenza le varie feste dei diciott'anni delle debuttanti ragazze cittadine e avendo indossato lo smoking quando necessario, e la Società dei Concerti nelle gelide serate invernali quando obbligato, a quanto sembra posso essere accettato nonostante la mia eccentricità, e anzi essere addirittura oggetto di curioso interesse.
"Oh! " Mi fa la signora Borromeo, un'antica gentildonna truccata e ingioiellata che sostiene con eleganza lo scintillante Baccarat. "Quanto vorrei che mio nipote fosse come te! Quanto mi piacerebbe che mostrasse un po' di iniziativa, un po' di spirito d'avventura..." Conosco il rampollo. Non è tanto male, ma è incastrato in una famiglia di industriali, fabbricanti di catene e altre acciaierie, troppo danarosi per permettere all'erede di deflettere dalla retta via.
Divoro grandi quantità di deliziose tartine, bevo un bel po' di champagne e poi, lemme lemme, mi dileguo nella mansarda che a suo tempo mi vide arrovellarmi sul Chiarugi intento a studiare le vene e le arterie che circondano il ginocchio. Altri tempi, quando si favoleggiava che diventassi medico, prima che la ventata psichedelica spazzasse via ogni speranza accademica e ogni ancoraggio socialmente corretto.
Amo Trieste, è una città bellissima e piena di ricordi e di biografia. Forse persino troppa. Non è qui che posso disegnare il mio destino, quindi, ciao mamma, ciao papà, ci vediamo presto.
Per leggere il seguito suggerisco di rintracciarlo su Androcecovini@blogspot.com dove esiste in ordine cronologico inverso.
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