.INDIAN TRAIL 38/a: Khyber Pass
INDIAN TRAIL 38/a: Khyber Pass
Il pullman dall'altra parte del confine pakistano ha visto giorni migliori, ma è successo molto tempo fa e certo per un periodo molto breve. Le strade, anche quelle internazionali, fra buche e massi sparsi e polvere ed eterno sovraccarico dei mezzi, fanno invecchiare rapidamente camion e corriere che tuttavia continuano a sfrecciare su curve da montagne russe e giù per discese rompicollo mentre i viaggiatori che stanno dentro si aggrappano ad appigli di fortuna e quelli che stanno sul tetto si abbarbicano ai bagagli legati lassù, cercando di non venir proiettati in qualche burrone alla prossima svolta. Le ambitissime soste permettono al groviglio umano di disincastrarsi da borse e fagotti per raggiungere le baracchine di tela dove pentoloni di chai sobbollono e involtini di curry e baji, curcuma e chapati resistono agli assalti di mosche e mosconi. Alcuni animali viaggiano con noi: qualche pollastro viene tirato fuori dal sacco per farlo respirare e una capretta vien lasciata brucare nel deserto roccioso che si estende infinito da tutte le parti. Gli occidentali non sono amati da queste parti: se in India ci si poteva sentire tutto sommato ben accetti -certo, più in quanto portatori di dollari che per vera e profonda simpatia- o almeno ignorati, in Pakistan la faccenda è un po' diversa.
I locali pensano che siamo dei miscredenti, dei vagabondi senza vergogna e senza stile e che le nostre donne, così lontane da casa, devono aver dimenticato ogni pudore e ogni convenienza. Anche altrove l'opinione generale verso i bianchi viandanti è analoga, ma non si traduce quasi mai in atteggiamenti aggressivi o astiosi; ma qui è consigliabile stare attenti, evitare discussioni, ignorare i bacarozzi che condividono le stanzette degli alberghi e pagare quanto richiesto senza batter ciglio. Una barbetta riccia e un bel paio di baffi che mi sono cresciuti mentre il mio rasoio giaceva inerte a migliaia di chilometri di distanza mi forniscono un primo bastione di difesa: è la faccia di uno studioso, quello che qui chiamano "sufi ", e di primo acchito il mio aspetto induce l'interlocutore a un certo rispetto.
Ci vogliono due o tre giorni per attraversare il paese che a sua volta è percorso dalla grande, spettacolare valle dell'Indo, culla di una parte dell'umanità e delle sue prime culture: Mohenjo-Daro, Harappa, e molti altri siti che testimoniano l'esistenza, ad esempio, del mattone cotto già duemilacinquecento anni prima di Cristo. È bene ricordare che le civiltà mesopotamiche usavano ancora il mattone crudo, ovvero argilla impastata con paglia ed essiccata al sole. Ma questo tipo di materiale non avrebbe permesso la costruzione di argini, indispensabili all'agricoltura in pianure percorse da fiumi possenti e imprevedibili come l'Indo, che provenendo dalle altissime valli del Gilgit nel Karakorum, dove torreggiano alcune delle montagne più alte del mondo, fra cui il ben noto K2, è improvviso nelle sue piene incontrollabili.
Lahore, Rawalpindi, Peshawar… I nomi del sogno ritornano e si ravvivano, e la lunga via del ritorno è nuovamente costellata di suoni e immagini, vicoletti e profumi, stelle sul mantello del viandante.
Albicocche secche, pesche e papaye, fichi, una profusione di colori dolci e intensi, rosa, arancione, moltissimi tipi di frutta secca, e stoffe vengono srotolate con gesti eleganti facendo scintillare i tessuti: il bazar di Peshawar è pieno di gente, mi basta indossare il tipico cappello locale, piatto dal bordo arrotolato, per passare inosservato e addentrarmi un pochino in qualche laterale. Agli angoli, venditori di tè; ci sono molti negozietti che alla frutta secca alternano pietre dure, turchesi, lapislazzuli, perle d'argento e di corniola, e poi utensili, pentole… Ogni tanto c'è un forno che sforna otto o nove volte al giorno un pane meraviglioso, qualche localino con tre panche e un tavolo... Non mi addentro troppo, preferisco ritornare dove c'è più gente. Voglio comperare un turchese, ma penso di farlo più avanti, in Persia, dove il turchese è impareggiabile.
Ci arrampichiamo rombando lungo l'interminabile strada che si inerpica verso il Khyber Pass, e devo dire che è un sollievo allontanarsi dal Pakistan, soprattutto con la dolce prospettiva di rientrare in Afghanistan.
C'è qualche formalità all'uscita dal Paese, formalità che si dissolve una ventina di metri più in là, dove le guardie afghane se ne stanno sedute a bere tè e chiacchierare all'ombra di alcuni teloni retti da pali.
In Afghanistan il cuore si solleva. La serena tranquillità in cui sento di potermi adagiare in Afghanistan è un bene piuttosto raro e bisogna che ne faccia tesoro, perché dovrò ancora attraversare paesi dove la gente di solito è assai meno amichevole.
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