Indian Trail: 4, Londra

INDIAN TRAIL:  4, Londra. 


   E’ notte fonda quando, ben sballottato dal treno che dall’aeroporto mi ha scarrozzato fino  a Victoria Station, Londra, scendo e poso a terra chitarra e borsa, e mi guardo intorno: sono sotto un’altissima ottocentesca pensilina di ferro e vetro, qualche fioca luce si riflette senza impegno qua e là fra i binari. Il secco schiocco di un paio di colpi di fucile mi da il benvenuto, vedo che chi spara è un tizio con berretta che mira ai piccioni lassù fra la ferramenta che regge le pensiline,  immagino con l’intenzione di farli arrosto.

Il salone è popolato da una fauna insolita ed un po’ inquietante, barboni e drop-outs di vario genere, e mi affretto a trovare un posticino dove aspettare con pazienza che arrivi un’ora decente per telefonare all’unico contatto che possiedo in quell’immensa e sconosciuta città: nulla di sicuro, amici di amici.

 

Una notevole serie di miracoli e fortunate coincidenze mi conduce fino alla loro porta, e visto che i tre amici di amici, Ann, Lucy e Henry, hanno i bagagli pronti e stanno per partire per una gita verso il nord e hanno un posto libero in macchina, a sorpresa mi invitano ad unirmi a loro. Ben felice io mi accodo.

Arriviamo fino a Norwich attraversando campagne verdeggianti e foreste di querce immense, fermandoci in qualche pub e, la notte, rizzando due tendine canadesi. Io scrivo, disegno e suono, rallegrando la compagnia per quanto possibile con il mio inglese stenterello.

Al ritorno, siamo diventati ormai amici, per tre o quattro notti dormo nel loro salotto, ma è chiaro che non può durare: sorge perciò il problema di dove andare a stare, io, il mio bagaglietto e la mia chitarra.

Henry mi suggerisce di provare a cercare una stanza in una delle case abusivamente occupate dagli squatters, in una zona meno ambita. Lo squatting è un fenomeno molto diffuso nelle aree più povere dell’immensa metropoli, e consiste nell’occupazione di una casa disabitata: qui il gas e l’elettricità si attivano con qualche monetina in un contatore, niente contratti, niente documenti. Lui stesso occupa una stanzetta in Myrdle street, East End, luogo malfamato sin dai tempi di Dickens ed in seguito specializzatosi nell’accoglienza di ogni tipo di vagabondi, homeless, hippies ed altre stranezze.      

La vita ha deciso che è giunto per me il momento di tuffarmi senza paracadute nel brodo primordiale umano.

 

La casetta in cui vengo accolto dopo una brevissima ed informale presentazione ad alcuni degli occupanti già presenti in loco fa parte di una lunga fila di squallidissime costruzioni tutte uguali, proprietà di qualche ignota corporazione che possiede l’intera strada. Siccome alle corporazioni, banche o altro, conviene possedere le aree ma non conviene affatto affittare le case, che essendo piuttosto malconce avrebbero richiesto restauri ed investimenti, ecco spiegato come mai a Londra esistono centinaia di abitazioni vuote in palese attesa di noialtri bisognosi.

La legge inglese recita che non puoi “break into”, cioè forzare il tuo ingresso in una casa vuota e chiusa. Ma se una finestra è aperta e il posto è disabitato, puoi entrare senza infrangere alcuna legge. Naturalmente c’è sempre una finestra “aperta”. Non solo: il proprietario per cacciarti fuori deve far dichiarare la casa inabitabile, il che non sempre gli conviene. Dichiarata inabitabile la casa, la polizia interviene, ma in genere in modo alquanto blando. Alla fine in effetti riescono a cacciarti, dopo tre o quattro mesi di esasperante tira e molla. Quando ciò avviene, con grande naturalezza tutto il gruppetto di squatters si trasferisce nella casa accanto, se è libera, o in quella successiva, con pochi fastidi visto che sono tutte eguali.

Nella casa accanto alla nostra è in corso un’eviction, cioè uno sfratto del genere, una vera burletta, con polizia e megafoni, un po’ di dimostranti di altre case e gli inquilini affacciati a fare sberleffi.  

Myrdle Street è una strada di per sé triste e grigiastra, ma è popolata da vari gruppi eterogenei e multicolori accomunati dalla loro diversità ed eccentricità. Il quartiere, East End, è sempre stato sede di loschi traffici ed ha sempre accolto la parte più emarginata della popolazione londinese. Così vi stanno radicando movimenti come il Women Liberation, il Gay Lib, e vi abitano artisti di varissimo genere, musiciscti e pittori, coreografi e designers, mescolati agli antichi residenti tradizionali indiani e neri.  Paradossalmente il prossimo quartiere verso ovest è la City, dove girano quelli in tight, bombetta ed ombrello. Lì non si possono occupare case.

Al piano terra della casa di Myrdle Street abita raro esempio di vero e proprio impiegato, una mosca bianca in questo ambiente. Sempre ben vestito e sbarbato, del tutto fuori luogo, il suo piatto preferito è un puzzolentissimo cavolo, un qualche tipo di verza che cucina fin troppo spesso.

Al piano di sopra, il mezzanino, c’è una donna gigantesca, una delle cape del Women Lib della strada, che mi incute un certo timore e da cui sto alla larga. In una stanzetta accanto a lei abita un suonatore di basso elettrico, bravissimo, col solo difetto che si esercita sempre; e potete immaginare un basso, da solo, che va avanti tutto il giorno. Ha un’amica deliziosa, le cui visite compensano in parte l’ossessivo ritmare del suo strumento. All’ultimo piano sto io, in una stanza che da sulla strada. La ho ereditata da Henry che si è trasferito stabilmente da Ann e Lucy.

 

Sul mio stesso pianerottolo si affaccia la porta di Mark, di cui intravvedo ogni tanto gli arredi plissettati e ricamati nella camerina mansardata che divide con Roberto, un bolognese molto carino e da lui molto amato che però si nasconde vergognosissimo ogni volta che mi vede. Mark è un tipo molto intelligente e pieno di humor, una specie di ufficiale di collegamento dell’invisibile organizzazione che sotterraneamente coreografa e mantiene le comunicazioni fra le varie case di squatters.


Una sera Ann e Lucy, con cui sono rimasto in contatto, mi invitano ad un party in un college. Why not, dico io.

Indosso le mie braghe migliori e vengo trasportato attraverso l’immensità di Londra fino al college in questione. L’inglese è una di quelle lingue che si pensa di conoscere finchè non si incontra un vero inglese: allora appare evidente che la lingua che conosce lui, o lei, e quella che conosciamo noi non sono lo stesso idioma. Questo complica parecchio i rapporti umani che richiedono comunicazione verbale, e nel mio caso, dopo un po’, eccomi isolato a guardarmi intorno senza grandi speranze di socializzazione.

All’improvviso vedo avanzare un nero in mezzo ai gruppetti di studenti bianchi ed emaciati. Mi pare di riconocerlo, ma non posso crederci: lo guardo fisso, lui mi guarda, ed è proprio lui, Derry, quello con cui avevo condiviso il palcoscenico del teatro Sistina a Roma due o tre anni prima, quando facevamo l’Orfeo 9. Nello spettacolo Derry chiudeva l’ultima scena accompagnando le note finali col battito delle sue mani gigantesche. Andava sempre fuori tempo, penso fosse l’unico nero privo del senso del ritmo, ma siccome il pubblico che popolava la vasta platea era lontano e non poteva sentire lo schiocco sballato, Derry faceva lo stesso la sua figura.

Detto per inciso, mi dicono che l’Orfeo 9 fu in assoluto la prima opera rock mai composta ed andata in scena: Hair, che la precedette di poco, non fu un’opera bensì un musical. La differenza potrà essere spiegata da Tito Schipa jr., che ne fu il compositore e regista: io mi occupavo solo di cantare, suonare, danzare e saltare come un grillo sul palcoscenico, per un migliaio di spettatori, nella totale oscurità della prima scena che preludeva al sorgere di un fantastico sole da me invocato ed evocato, che con il suo apparire suscitava il primo applauso della serata. Il primo applauso è quello che rompe il ghiaccio e fa capire a tutti quelli che stanno al di qua della barricata, ovvero sulla scena, che andrà tutto bene.

Al di là del valore artistico dell’opera, uno dei meriti dell’amico Tito fu quello di aver saputo coreografare l’azione di una ventina e passa di talenti provenienti da svariati Paesi, quasi tutti temporaneamente abitanti a Trastevere, tutti dotati di personalità notevoli e dell’energia inesauribile ed esplosiva di una giovinezza in piena ricerca di espressione.

L’ultima volta che avevo visto Derry, in Piazzetta Trilussa a Trastevere, ci eravamo fraternamente salutati; un paio di giorni dopo lo avevano arrestato per il solito grammo di fumo, trasformandolo in un altro dei personaggi che la vita sembra via via cancellare dall’orizzonte. Ma, come si vede, non per sempre.  

“Derry!” chiamo io, superando dubbi e timidezze “Is it really you?”

“Jesus Christ man, whatchyodoing here man?” Mi fa lui, abbracciandomi sopra le teste degli studenti seduti. Derry è un tipo piuttosto sfortunato, me ne accorgo appena comincia a raccontarmi la fitta serie di disgrazie che hanno riempito i suoi ultimi due o tre anni. Solo la noia mortale del party riesce a farmelo ascoltare, e dopo un po’, alla notizia che lui abita nel sottoscala di una piccola famiglia di neri che litigans sempre, gli dico di venirmi a trovare in Myrdle Street dove forse potrebbe esserci un posticino per lui.

Derry arriva dopo un paio di giorni, e si piazza nel salotto che sta sotto il livello della strada, accanto alla cucina. Gli altri squatters non obiettano, un nero ci voleva proprio per incrementare la varietà della popolazione casalinga. Passa una settimana, è venerdì sera, Derry va in fondo alla strada al pub, a prendere dell’erba. Passa un po’ di tempo, io sono all’ultimo piano, sento bussare alla porta di strada e mi affaccio alla finestra: nelle case occupate è meglio stare attenti a chi si fa entrare, possono rifilarti ingiunzioni, sfratti, avvisi quando meno te l’aspetti. Vedo il cranio crespo di Derry, ma sento che c’è qualcosa che non va. Il cranio ondeggia e traballa. Corro giù e apro: l’amico sta in piedi per scommessa, si regge allo stipite e mi guarda con occhio vitreo e allucinato. “Che cazzo succede?” chiedo in inglese. Derry ballonzola, gli occhi in gloria.

“I got stabbed, man, the motherfucker had a stiletto,  punched me in the neck…”  Barcolla, si tiene una mano sul collo, gliela sposto e vedo una feritina, un rivoletto di sangue scende sotto la camicia. Deve aver litigato giù al pub, e qualche teppistello deve averlo accoltellato. Meno male che è arrivato a casa, ma è sotto shock e quando mi si accascia fra le braccia riesco appena a sostenerlo, sembra un inerte sacco: è grande e grosso e completamente floscio. In quel momento arriva anche Mark, e insieme lo portiamo sul suo letto. Non si può sapere quanto sia profonda la ferita: uno stiletto fa un buco piccolo piccolo, ma può entrare molto in profondità. Dobbiamo portarlo in ospedale. Sappiamo che deve avere dell’erba addosso visto che quella era la sua missione: perciò tentiamo di farcela dare, non possiamo certo portarlo in ospedale ferito di coltello e in più con l’erba in tasca. Lo scemo farfuglia ed insiste nel dire che non ce l’ha, che non l’ha trovata… Ce lo carichiamo e, visto che riesce a camminare un po’ sia pure strascinando le gambe, arriviamo caracollando al London Hospital, lì vicino. Derry è stralunato, io non ricordo il suo cognome, anzi non l’ho mai saputo, e Mark nel frattempo è scomparso. In Italia mi avrebbero interrogato sospettosi, a Londra mi ringraziano e mi dicono di tornare domani a vedere come sta l’amico. L’amico, l’indomani, sta benissimo; è fasciato e ricucito, la ferita non era profonda; però gli hanno trovato l’erba, così sta di nuovo nei guai. Mi è molto grato, ma ha deciso che l’aria di Londra non fa per lui. Non posso che essere d’accordo.


segue.

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