INDIAN TRAIL 37/a: Polveri colorate...

 INDIAN TRAIL 37/a: Polveri colorate...

Polveri colorate di Benares, pezzetti di legno di sandalo che sto scolpendo per farne degli scacchi, fichi secchi e carote nella bisaccia; calzoni scoloriti e sbrindellati, un fedele bastone con cui tenere a bada vacche insistenti e randagi di varia natura. Passaporto e qualche rara banconota superstite sono arrotolati nel foulard turchese che uso come cintura e cassaforte. Nella taschina cucita all'interno dei calzoni vicino all'orlo dalle parti della caviglia, c'è l'ultimo biglietto da cinquanta dollari, quello che mi dovrà portare fino in Italia.
Arrivo ad Amritsar, città sacra come del resto praticamente tutte le altre città dell'oriente. Ho quasi dimenticato che mi trovo di nuovo nella capitale del Punjab, la terra dei Sikh dove la vocazione primaria di ogni abitante maschio è di essere un guerriero, o almeno un soldato. Perciò entrare nella loro capitale vuol dire trovarsi in mezzo a una folla variopinta e armata fino ai denti di sciabole e scimitarre, picche e lance, coltellacci e simil-kukri. Tutti indossano il turbante d'obbligo, alto e colorato e tutti hanno la barba d’ordinanza.
C'è un personaggio che ho già incontrato e che passeggia su e giù davanti all'ingresso del ponticello che porta al Tempio d'Oro: è alto circa un metro, ma il turbante che porta è alto un metro pure lui, con in cima una specie di coccarda fiorita e splendente, e per quanto l'amico susciti ilarità è meglio trattenersi dal fare commenti, visto che inalbera un'alabarda minacciosa e si trascina dietro uno spadone colossale la cui punta struscia sul terreno. Il suo portamento è marziale, lo sguardo è corrusco e concentrato sulla bisogna di controllare il ponticello la cui entrata è peraltro libera.
Sul ponticello che sorvola il laghetto e arriva all'isoletta dove sorge il Tempio d’Oro passano tre musicisti che con tabla e vina e flauto si siedono e ricreano e rinforzano l'atmosfera mistica che circonda il luogo. Fedeli e visitatori camminano in flusso continuo intorno al tempio - che effettivamente è tutto color oro e decorato con mosaici e complicatissime smerlettature di marmo - per poi riattraversare il ponte.
In questa mia seconda visita al Tempio d’oro mi par di notare che qualcuno non troppo fedele dev'essere passato di qua perché, a ben guardare, più di qualche tessera dei mosaici sembra esser stata sottratta come souvenir.
Una delle cose di cui ci si accorge quando si viaggia a lungo è che alcuni dei parametri che in genere supportano il nostro vivere civile smettono pian piano, inavvertitamente, di funzionare per essere sostituiti da altri, più adatti ai climi e luoghi presenti. Per esempio il trascorrere del tempo assume un ritmo e una valenza inusuale e a volte surreale mentre gli eventi maturano come pare a loro; buona strategia è rimanere flessibili e sapersi rilassare nel continuo mutare di circostanze su cui non si ha nessun controllo. Così, rilassandomi e adattandomi, sono inconsapevolmente riuscito a rimanere in India più del doppio del tempo che il mio visto avrebbe legalmente consentito. Svariate piccole chiose allegate al visto stesso mi sono sfuggite, e a quanto pare sono piuttosto importanti; ma quando si è immersi nell'avventura, come si fa a tener conto di dettagli burocratici, di scartoffie inventate per creare ostacoli e per controllare l'incontrollabile?
Dopo un paio d'ore di corriera mi presento al confine insieme ad altri viandanti dall'aspetto polveroso, ciascuno con le sue borse e tracolle, bisacce e masserizie, proprio come si è fatto per secoli seguendo le strade e piste e sentieri che serpeggiano fra queste montagne aride e dorate. Non c'è la sensitiva che pattuglia il confine fra Pakistan e India: se è di turno sta dall'altra parte, ad annusare quelli che vogliono entrare. Non si capisce bene per quale motivo sia così importante fermare questo microtraffico quando notoriamente il Kashmir e tutte le vastissime colline prehimalayane sono formidabili produttrici di ogni droga possibile e immaginabile. Ma è probabile che, al solito, la risposta sia nelle somme che i poveri arrestati devono versare per esser liberi.
Uno alla volta vengono fatti passare tutti, vanno verso l'altra casermetta, quella pachistana. Tutti, meno uno: io. Quando dopo averlo estratto dalla tasca segreta consegno il passaporto, il poliziotto con turbante dietro il bancone lo osserva, lo gira, lo guarda e poi chiama il suo collega. Confabulano un po', poi mi guardano e scuotono le teste e in inglese mi dicono che non posso passare. Come, non posso passare! No, non si passa. A quanto pare il mio visto è scaduto da quattro mesi. Segue una fitta conversazione nel corso della quale comprendo di essermi infilato in un guaio e che per risolverlo, mi dicono, dovrò ritornare perlomeno fino ad Amritsar dove forse, e sottolineo il forse, c'è un ufficio che può provvedere a mettere le cose a posto.
Ho la sensazione che se allungassi un po' di dollari potrei passare lo stesso, ma l'abilità di corrompere la gente non è uno dei miei talenti, non l'ho mai fatto e temo che finirei col fare peggio. Ringrazio, intasco il passaporto, raccolgo i miei averi e tristissimo vado ad aspettare la corriera per Amritsar.
Eccomi di nuovo ospite del tempio generoso che in questa santa città alberga e nutre i poverelli in giro per il mondo, anche quelli che sventatamente lasciano scadere il loro visto. Dormo allungato sul sacco a pelo - che ormai ha perso molte delle sue antiche e gloriose piume e dunque è sottilissimo - e mi copro con una sciarpona che mi imbozzola e mi conforta. Le pietre su cui giaccio sono lustre e lievemente scavate dai corpi affranti di chissà quanti viandanti, che però non sono riusciti ad ammorbidirle. Le due stanze riservate ai viaggiatori occidentali danno sul porticato che corre tutto intorno al serraglio e siccome non esistono porte o battenti spesso vi si affacciano curiosi in turbante che ispezionano con lo sguardo gli ospiti stranieri, in parte anche per assicurarsi che ci si comporti bene e che i chillum rimangano inattivi. Ogni tanto mi sveglio e mi assicuro che la tasca dei documenti sia ben protetta: sulla via dell'India non c'è luogo più pericoloso di una stanza piena di occidentali. Molti arrivano da queste parti perché l'oppio e derivati costano talmente poco che ci si può piazzare in una stanza d'albergo e dimenticarsi del resto del mondo, ben riforniti e senza le preoccupazioni che infestano le medesime procedure a casa nostra. Certo, nel giro di un paio d'anni muoiono quasi tutti, ed è una tristissima faccenda vederli, uomini e donne, fantasmi di una bellezza perduta, vagare alla ricerca di ingenui nuovi arrivati cui spillare un po' di quattrini, o da derubare. Eterei, trasparenti, forse portatori e portatrici di qualche antica speranza, di un anelito poetico disegnato da sciarpe di seta e gonne leggere, sempre più lontani e distaccati nel loro solipsistico disintegrarsi. In fondo, faber suae cuisque fortunae: ciascuno è artefice del proprio destino. Onore e disperazione del vivere umano. Si possono fare molte considerazioni, ma rimane essenziale tenersi la borsa ben stretta perché fidarsi è bene ma tutto ha un valore, tutto può esser venduto, tutto può esser rubato persino nell'amichevole serraglio di Amritsar: e sarà di sicuro un occidentale a provarci.
Nessuno qui sembra disposto a rettificare le manchevolezze del mio visto. Non so se disperarmi o far finta di nulla e affidarmi al mio destino. Ritornerò al confine, almeno sono ben riposato. Il dio delle imprese, Ganesh, di sicuro mi aiuterà.
Al confine mi avvicino alla zona degli uffici dove dovrei trovare chi, con un breve timbro e firmetta, sia disposto a mettere a posto la mia discutibile posizione di snobbatore di visti. Gli aspetti burocratici di questa grandissima nazione sono proporzionali alle sue dimensioni, ed è davvero quasi peggio che essere in Italia. Mi sono dovuto disciplinare più volte, aspettando un biglietto del treno o spedendo qualcosa per posta, trovandomi davanti a piccoli burocrati che fingevano di non capire (un'altra manifestazione della resistenza non violenta) o che ci mettevano un'oretta a fare un'addizione. Ma questa volta il torto è tutto dalla mia parte, non c'è modo di rigirare la frittata, e mentre passo in mezzo ad alcune decine di tendoni sottesi da pertiche e pali sotto la cui ombra sono parcheggiati numerosi personaggi dotati di grandi calamai e risme di carte, mi preparo ad affrontare il turbante con barba lievemente unta che mi aspetta al varco, severo eppur sornione dietro il suo desco secolare nella rovente stanzetta che è il suo regno.
Estraggo il passaporto, glielo allungo oltre il tavolo e lui lo ghermisce con mano adunca, un sorrisetto sulle labbra. Sa già di che cosa si tratta, prima o dopo passano tutti da lui, gli smemorati e i distratti. Comincia a fare una faccia preoccupata, io mi inquieto, lui corruga le sopracciglia come se avesse scoperto qualche brutto inghippo fra le pagine del passaporto. Mi sogguarda come per dire: "Qui la faccenda è grave…". Mi sto innervosendo. Penso che voglia dei soldi, non so come fare perché non mi è mai capitato di corrompere qualcuno; anzi la sola idea mi dà parecchio fastidio. Sono imbarazzato, mi irrigidisco e stoltamente sbotto: "Be', quanto vuoi? ". Pessima mossa. Il sikh ha preso soldi da migliaia di ritardatari, ma non gli piace il mio tono; anzi, forse gli evoca tempi andati in cui i bianchi trattavano i locali a pesci in faccia, forse ricorda di appartenere a una casta guerriera. Il sikh adesso vuol farmela pagare. Vedo che comincia a ritirare la mano che trattiene il mio passaporto. Ma io non sono più disposto a soffrire per la sua sia pur giustificata permalosità: allungo il braccio e gli sfilo il passaporto dalla mano, ed esco dall'ufficio.
Il sole cocente splende sul viandante nei guai: in che guaio mi sono cacciato? Ma come, dopo mesi e mesi di permanenza nella terra del Buddha mi arrabbio ancora per causa di un piccolo burocrate? Che fare? Mi calmo, vado a comperarmi un po' di tè in un banchino sotto un tendone. Osservo gli scribi che tutto intorno parlottano fra loro, seduti nella polvere o su qualche sgabellino; mi chiedo cosa ci stiano a fare. Chiedo al venditore di tè, e quello mi fa: "Lawyers!". Avvocati. Ovvio! Siamo al confine, e di casi come il mio ne devono accadere a centinaia, e a volte ben più gravi! Questi sono avvocati, praticamente membri della mia famiglia d'origine, posso intendermi e farmi aiutare. Ne avvicino uno e gli spiego il mio problema. Sorride rassicurante, deve essergli capitato spesso di doversi occupare di questi occidentali trascurati e ignari delle severissime leggi del paese. Si fa dare cinque, dico cinque dollari e il passaporto. Spegne il bidi che sta fumando, entra nell'ufficio dove si annida il cerbero e dopo tre minuti ne esce e mi restituisce il documento, timbrato e firmato. Cinque dollari anche per lui. Via libera.
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