INDIAN TRAIL: 36/a: Sulla via del ritorno.

 INDIAN TRAIL: 36/a: Sulla via del ritorno.

La cartina stesa sul letto mostra una strada lunghissima, disseminata di luoghi dai nomi ieratici e densi di storia e memorie. È la ormai un po’ consunta Bartholomew originale, quella comperata a Londra, costosa ma eterna. Cerco di capire e programmare tempi e percorsi, anche se da queste parti bisogna per forza essere elastici: molto spesso la velocità di un viaggio in corriera dipende dalla grinta dell'autista e dall'aggressiva determinazione che mette nel tirare dritto a tutto vapore sull'unica carreggiata a disposizione, ignorando ogni ostacolo.
Questo autista è decisamente aggressivo e determinato: chiunque venga incontro dall'altra parte deve uscire di strada il più rapidamente possibile, e babu, sadhu e viandanti, capre e mucche che perennemente camminano sui due lati dell'arteria disseminata di piccolissimi tea-shops balzano come cavallette per far posto al forsennato e non essere travolti. Solo le mucche hanno qualche privilegio, ma sembrano sapere che non ci possono contare veramente, e si spostano pur mantenendo un'indolenza meditativa. Troppo progresso, troppa fretta moderna per queste vacche indiane tanto sacre quanto magre.
Devo aver bevuto qualcosa di strano, perché la pancia è tutta in subbuglio e il panorama improvvisamente perde qualsiasi interesse. I sommovimenti interiori peggiorano: fa proprio male, è una di quelle peculiarità indiane che si preferirebbe non conoscere mai ma che prima o dopo entrano a far parte dell'esperienza di ogni viaggiatore europeo: qualche baco ha trovato la via per importunarmi e lo sta facendo con gran vigore, quasi a rifarsi dei parecchi mesi in cui mi ha lasciato in pace. Cambio posizione duecento volte sul duro sedile, sballottato qua e là e sobbalzando su e giù, cercando di resistere alle esplosioni interne. Non so quando ci fermeremo, sembrerebbe mai. Sudo freddo, sudo caldo, il mio dramma si svolge fra passeggeri ignari e contenti: a loro quell'acqua micidiale non fa nulla, devono avere apparati digestivi inossidabili. Ma il mio è ben ossidato, e se quel guidatore che sta appiattendo l'acceleratore e seminando il panico sulla strada non si ferma presto, il mio dramma diventerà un dramma comune a tutta la corriera. Stringo i denti, recito mantra, osservo il prana, userei anche il rosario se ce l'avessi. Se questo non si ferma, salto dal finestrino. Oddio, si ferma, si ferma! Esco velocissimo, trovo un angolino appartato ma neanche tanto -la privacy non è mai contemplata in India- e in breve ritrovo la mia felicità perduta. È un momento altamente simbolico: non ho carta, non possiedo giornali e la cartina Bartholomew è telata. Cerco di galleggiare sull'orrendo pantano mentre decido di compiere il gesto sacrilego, e sacrificare qualche rupìa ammorbidita dal passaggio di mille mani. Data la povertà circostante, il gesto è simbolicamente peggiore che accendersi il sigaro con un biglietto da cento dollari.
Quasi volesse avvertire del suo imminente arrivo, il monsone di primavera che avanza sull'oceano spinge una massa di umida pressione che presto incontrerà l'immenso sbarramento dell'Himalaya dove si condenserà in pioggia irrefrenabile. È anche grazie a questo fenomeno che le pendici prehimalayane -che si estendono in profondità per oltre cento chilometri- sono vestite di giungle e foreste infinite che ammantano l'intrico di valli e vallette scavate e scolpite da innumerevoli fiumi e torrenti e percorse da sentieri impossibili che si inerpicano vertiginosi per poi precipitare verso abissi e pietraie in un saliscendi mozzafiato sia per bellezza che per fatica.
Alleggerito e rasserenato, ma sempre sballottato senza pietà nella corriera fatiscente e odorosa di umanità compressa e sudaticcia, avvolto in una copertina e poggiato sulla mia borsa nell'angolo lasciato libero dall'invadente indiano seduto lì vicino, sopporto un breve digiuno: non oso comperare, per quanto le desideri, quelle polpette buonissime e mortali che si trovano a ogni fermata del carrozzone multicolore che fa servizio fra Delhi e Chandigarh. Il tè - chai - dolce e lattiginoso che ho osato bere mi rinfranca, e io pregusto la visita alla mitica città che, essendo stata progettata da Le Corbusier, dev'essere un capolavoro di arte urbanistica. Non posso fermarmi, devo proseguire per Amritsar, capitale spirituale del Punjab, ma un'occhiata devo dargliela per forza: ho snobbato il Taj Mahal, il troppo classico monumento all'amore perduto, ma Chandigarh voglio vederla.
Be', non posso dire di esserne colpito: l'aria da periferia urbana europea già palesemente degradata dall'uso quotidiano, gli artificiali angoli retti delle strade, l'incongruità dell'architettura aliena non mi convincono per niente. Sembra che l'India abbia comperato una città di seconda mano in Europa, e l'abbia depositata ai piedi dell’Himalaya.
Un'aria gentile e fresca scende dalle montagne, e dopo aver accarezzato il Kashmir viene ad alleggerire il torrido fronte monsonico che sta avanzando rapidamente risalendo il subcontinente e avviluppando le grandi pianure che stanno ormai alle mie spalle.
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