INDIAN TRAIL 33/a: Dal Golfo del Bengala all'Oceano Indiano.
INDIAN TRAIL 33/a: Dal Golfo del Bengala all'Oceano Indiano.
Puri è una cittadina, o meglio un paesello, sulla costa orientale dell'India, quella che si affaccia sul Golfo del Bengala.
L'oceano è calmo e infinito, la spiaggia dolce e deserta, la casa dove abito è proprio sulla spiaggia, grande e vuota, priva di infissi e aperta ai quattro venti. C'è una mucca che entra ed esce a suo piacere: devo stare attento ad appendere tutto in alto, perché ruminerebbe qualsiasi cosa, sandali compresi. Per deserta che sia, la spiaggia viene battuta da venditori di dipinti, che si affollano intorno a me in quanto unico umano bianco presente e beatamente ignudo e indifeso. Respingo ripetuti assalti, mi viene da tirargli la sabbia negli occhi; poi mi ricordo che ci sono quei cinquanta dollari da investire e comincio a osservare i lavori. Lo stile dell'arte locale è tipico: le opere sono dipinte su una robusta canapa intrisa di qualche resina che la rende arrotolabile senza incrinare gli smalti, i personaggi sono come sempre Ganesh dalla testa d'elefante, Krishna che avanza ceruleo di cenere, divinità danzanti, qualche tigre con gli occhi un po' storti.
Devo spendere questi cinquanta dollari con una certa rapidità perché nei miei piani per l'immediato futuro c'è Goa, delle cui bellezze Puri sembra essere un pallido riflesso. Goa però sta dall’altra parte del subcontinente, perciò è meglio darsi da fare.
Convoco a casa un artista che mi pare un po’ meglio di altri, sbarro la porta prima che la mucca entri e divori qualche opera immortale, ispeziono il suo lavoro e gli compro tutto, rendendolo ricco e felice. Cinquanta dollari sono un sacco di soldi: per l'amico è una vera manna dal cielo.
L'acquisto è concluso, devo spedire il malloppo in Italia. Arrotolo le tele, le sistemo in una cassetta di metallo e vado all'ufficio postale. La cassa è apribile, piena di tele e nient'altro. L'impiegato al di là del bancone guarda la cassa e dice: “Impossible. Non è possibile spedirla."
“Perché? "
"Perché è aperta. "
"Ah, capisco. Allora ci metto due lucchetti…"
“Impossible."
"Perché? "
"Perché non si potrebbe più aprire. "
“Ma… Be’, ci lego le chiavi… "
“Impossible.”
"Ma, scusi, cosa posso fare? " Vari impiegati si riuniscono in consulto nel retro degli uffici, sguardi astiosi verso questo turista fastidioso e rompiscatole. Eccolo di ritorno.
"Deve incartare la cassa: così non si può spedire ".
Esco, trovo della carta da pacchi, scrivo l'indirizzo e torno all'ufficio.
"Non è possibile spedirla. "
"Ma perché? Che cosa manca? " Segue una frase che contiene una parola incomprensibile, che con il tempo si rivela essere la parola chiave. Ci vogliono almeno dieci minuti per scoprire che è necessaria della "sealing wax", che sarebbe la ceralacca. Provate un po' a cercare di capire "sealing wax" pronunciato da un indiano che mastica betel, e poi a trovare della ceralacca a Puri nell'Orissa. Nemmeno la mucca potrebbe aiutarmi, e sì che abita qui da sempre.
Trovo la ceralacca, ne spiaccico un bel po' sulle aperture della carta che contiene la cassa e torno all’ufficio.
Un grande sorriso appare sulla faccia da schiaffi del capufficio, certamente dovuto al fatto che non mi vedrà più. Cassa accettata. Sembra di essere in Italia.
Fra Puri sul Golfo del Bengala e Goa sull'Oceano Indiano ci sono quasi duemila chilometri, e ci vogliono circa settanta ore di treno per attraversare un territorio meraviglioso e sconfinato.
Occorre prepararsi con un po' di viveri - nel mio caso, una borsata di carote e un sacco di pistacchi - e comperare un biglietto inclusivo di sleeper, cioè quella mensola che da noi è usata per metterci le valige e che qui invece essendo di legno serve da branda per i ricchi. È un lusso, ma so che non dormirei volentieri per terra in mezzo ai piedi di centinaia di babu, sadhu e pellegrini, per bravi e puliti che siano. E quando si cerca di assopirsi sul sedile, ci si ritrova sempre abbracciati da qualche indiano che nel sonno scivola e si amalgama a chiunque gli stia vicino. Perciò, sleeper. Come sempre serve anche un libro abbastanza grosso da durare per tutto il viaggio, visto che le conversazioni con i colleghi viaggiatori sono uguali a quelle avute in ogni vagone e corriera del subcontinente: "Da dove vieni? " "Che lavoro fai? " "Sei sposato? ", tutte domande stimolanti che sembrerebbero preludere a una più intima conoscenza, illusione che uno mantiene finché arriva la seconda raffica di domande creative: "Da dove vieni? " "Sei sposato? " "Che lavoro fai? ". Se gli si dà corda, le domande si ripetono per sempre, con lievissime variazioni. In breve si capisce l'antifona: anche il povero indiano si annoia, e conversare con l'alieno è meglio che guardare il panorama conosciuto e immutabile. L'assalto al treno è meno selvaggio che da altre parti, c'è molta meno gente sul tetto dei vagoni e tutti usano le porte per entrare, invece dei finestrini. Però dentro è tutto stipato: è probabile che il treno arrivi da Calcutta, da cui si muove costantemente un flusso continuo di persone.
Entro cercando di difendere le carote dalla distruzione, calpesto due o tre gambe indifferenti, sgomito con delicatezza - non voglio farmi troppi nemici - e dico "accià, accià " che non so bene cosa significhi, ma sembra essere un passepartout per ogni occasione. Individuo il mio scompartimento, il numero è sul biglietto, e svariate paia di occhi scuri e lucenti mi fissano. È palese che non c'è posto nemmeno per un serpente, almeno sei persone sono sedute per terra e lo sleeper di mia competenza è occupato da tre giovanotti appollaiati. Controllo il numero, è proprio lui. Mostro il biglietto col numero e indico il numerino sulla targhetta: mi sembra di essere abbastanza chiaro. I tre mi ignorano. Tocco una gamba non meglio identificata per attirare l'attenzione del proprietario sull'evidenza del mio diritto. Targhetta, biglietto, lo capirebbe anche un bradipo che cosa intendo. Il proprietario della gamba guarda indifferente, poverino, non capisce. È in queste situazioni che diventa chiaro il significato di "fare l'indiano", condito da "resistenza passiva non violenta". Mi sto innervosendo, la scena è seguita dagli sguardi di tutti i viaggiatori dello scompartimento. Agli inizi del mio viaggio, migliaia di chilometri fa, ero intimidito dal fatto di sentirmi ospite, di essere un privilegiato, di appartenere a un’Europa colonizzatrice e sfruttatrice, e da tutte le altre pastoie psicologiche, per altro giustificabili in quanto reali. Ma dopo qualche mese di vessazioni subite a causa dell'evidente disprezzo che i locali manifestano verso chi si comporta come se si sentisse sempre un po' in colpa, qualcosa è cambiato nel mio atteggiamento. Non mi sento più in colpa. Sono e rimango consapevole dei miei personali diritti, e uno di questi diritti è il mio sleeper. La mano con cui tocco la gamba rilassata che fa l'indiana improvvisamente si irrigidisce in una presa decisa, e con garbati ma insistenti strattoni il povero indiano si ritrova sul pavimento, dove gli altri fanno miracolosamente posto. Gli altri due scendono velocissimi, non so dove vadano a rifugiarsi perché devo arrampicarmi rapido sullo sleeper per reclamarne subito l'indiscutibile possesso: la natura infatti non tollera spazi vuoti, soprattutto su questo treno. Aaahhh… Che bello stendere le gambe!
Me ne sto steso sul comodo sleeper di legno levigato, almeno una gamba sempre di guardia a occupare la porzione di tavolato che, se lasciato libero, sarebbe subito aggredita da qualche arrampicatore; la borsa come cuscino, il libro bello grosso da leggere - ho scambiato i Fratelli Karamazov con Venti di Guerra, di Wouk, un vero polpettone - e un bel po' di carote da sgranocchiare. Si attraversa il subcontinente, da oceano a oceano, e il trenino a vapore penetra tranquillo nella giungla che verdeggia appena fuori Puri e non ne uscirà fino alle porte di Goa, una settantina di ore più in là. Il trenino si ferma ogni poche ore, praticamente ogni volta che si intravvede un gruppetto di casette e capanne con il tetto di fronde. Sono soste indispensabili, tutti scendono per far provvista di meravigliosi involtini di masala fritti nel ghee e avvolti in foglie, e centinaia di tazze di latta vengono estratte da invisibili tasche, e riempite di tè e latte. Qualche ardito si fa schiacciare un po' di canne da zucchero in una macchinetta che ne spreme il succo, ma io ho sgradevoli ricordi di un precedente tentativo: non è saggio bere alcunché se non è stato prima bollito. Solo il latte della noce di cocco è sterile: tutto il resto contiene quasi sempre batteri che appena si accorgono di essere ospiti di un europeo deboluccio e impreparato, si sbizzarriscono. Cerco rifornimenti di carote e pistacchi, trovo un bel casco di banane e riesco anche a comperare qualche involtino e una bottiglia di qualcosa di torbido, ma con una etichetta allegra e attraente. Il bagno è nella giungla, anzi, è la giungla. Spero che non ci siano tigri in agguato, io se fossi una tigre aspetterei che qualche turista pasciuto e croccante si appartasse dietro le palme e poi gli azzannerei quelle belle bianche chiappe all'aria… Niente tigri, ma numerosi pappagalli coloratissimi volano di albero in albero, una sensazione strana per me che li ho visti solo in cattività su trespoli a grattarsi con sobria lentezza.
Si torna sul treno, temo per il mio sleeper che invece è stato rispettato come se queste soste fossero delle tregue necessarie e fosse proibito approfittarsene per fregare il posto altrui. Tutti a svolgere involtini e a chiacchierare fino a che il ritmico rumore del treno mette tutti a dormire. Oh, Goa! Goa è uno dei luoghi mitologici del mio inconscio che sto per esplorare, come se fosse Mompracem, o Shangri-la: un tuffo nel sogno, lo svelare un mistero antico e desiderato
Commenti
Posta un commento