INDIAN TRAIL 32/a: Verso l'Orissa.
INDIAN TRAIL 32/a: Verso l'Orissa.
Biglietto di seconda, dritto fino a Calcutta. Ci sono circa seicento chilometri, una passeggiata se non fosse per il treno strapieno di viaggiatori. Molti indiani viaggiano portandosi appresso un grosso rotolo che mi pare sia un materasso, oltre a borse e sporte e colossali valige che cercano in tutti i modi di caricare sui vagoni stipati di gente. Pacchi e malloppi vari passano a forza dai finestrini, e c'è un sacco di gente sul tetto del convoglio, tutti seduti tranquilli a chiacchierare o pronti ad aiutare altri assaltatori ad arrampicarsi in quell'ambita postazione. È indispensabile visitare un bagno prima di partire, perché i gabinetti sono costantemente abitati da due o tre viaggiatori. Svariati passeggeri se ne stanno appesi all'esterno dei vagoni, aggrappati ai finestrini.
È l’alba, il treno sbuffa, fischia e si muove lasciando faticosamente la stazione di Benares e sferragliando verso est, con il suo incredibile carico umano. Dai finestrini si vedono file di persone accovacciate sui terrapieni paralleli alle rotaie, che fanno i loro bisogni.
Ho miracolosamente trovato posto vicino a un australiano: ho fatto come usano fare tutti, cioè mi sono seduto fra due viaggiatori senza chiedere nulla e ignorando le tenui proteste dell'indiano che deve stringersi spingendo il suo vicino…
L'australiano è John. Mi racconta che è riuscito a svincolarsi da poco dalla relazione con un guru di cui è stato discepolo per un po' di mesi. Questo guru, un sadhu estremo, oltre a praticare una meditazione continua e fumare ganja senza sosta seguiva alcune regole, regole che cercava di imporre ai suoi rari discepoli. Una di queste consisteva nel non potersi mai sedere o sdraiare, nemmeno per dormire. Dormiva con le braccia conserte appoggiato a un'altalena che attaccava ai rami di un albero, e non posava mai il deretano né a terra né su alcun rialzo.
Quando il guru gli diede la notizia che stava per andare nella giungla e che si aspettava che John lo seguisse come fedele discepolo, l'australiano decise che era tempo di dileguarsi.
Passano i chilometri, ogni tanto c'è una breve sosta e molti si affannano accalcandosi ai finestrini per comperare del chai e altri viveri di conforto. I più però si sono imbarcati già provvisti di pacchetti di cibo, e riesco a raggiungere un finestrino e ad afferrare del chai e un po' di involtini non meglio identificati. John sorveglia il mio posticino a sedere, che in mia assenza verrebbe subito occupato.
L'indiano alla mia destra, quello che ho spinto un pochino per farmi posto, mi appoggia la testa sulla spalla e si accomoda tranquillo mettendosi a dormire. Quasi tutti fan così, e gli scompartimenti sono strettamente separati per uomini e donne, vista la naturale promiscuità per cui ognuno è cuscino di qualcun altro: un’intimità cui è meglio abituarsi, essendo impossibile evitarla.
La stazione di Calcutta è una vera bolgia. Saluto John e faccio cenno a un riksciò: qui i riksciò sono veri e propri carretti con due stanghe che il guidatore afferra per trascinarsi dietro il carico. Non si vedono le policrome Piaggio né i tricicli. Sono impressionato dal volume di carico che molti rikscioisti riescono a trasportare: i locali sembrano non avere alcuna pietà, caricano sul sedile la famiglia e tutto ciò con cui hanno viaggiato, materasso compreso, prima di inerpicarsi sul trabiccolo. Il rikscioista scalzo parte e si infila in un denso traffico di centinaia di altri riksciò, oltre a qualche motoretta e qualche automobile il cui clacson suona all'impazzata. Ci sono ingorghi inestricabili da cui non si capisce come facciano a uscire con i piedi ancora intatti, sfiorati continuamente dalle ruote cerchiate di ferro dei loro colleghi.
La prima parte del ponte di Howrath, che attraversa un enorme braccio del delta del Gange ed è stato progettato e costruito a dorso di mulo -dai russi- obbliga i rikscioisti ad affannarsi in salita, per poi frenare con spalle e calcagni nella susseguente discesa, sospinti dai carichi esagerati.
Sotto il ponte di Howrath vive una pletora di miserabili, intoccabili che cercano di arpionare ciò che il Gange trasporta fin lì, alla sua foce, dopo migliaia di chilometri di percorso.
Grandi palazzi in costruzione si ergono lungo le vie, le impalcature su cui lavorano i muratori sono di bambù: le canne lunghe dieci metri e grosse come una gamba vengono velocemente legate e controventate da ragazzini che si arrampicano senza esitazione e portano mannelli di strisce di bambù con cui assicurano gli incastri. L'impalcatura è altissima, cinque, sei piani, e trema e vibra elastica e flessibile, sopportando ogni carico. Un lavoro fantastico.
Il bazar di Calcutta è grandissimo, lo esploro un po' ma sono piuttosto saturo di impressioni e ormai ne ho visti parecchi, di bazar. Compero una pezza di tela bianco-giallina bella robusta con cui intendo cucirmi una borsa da tracolla, perché il mio zainetto sta lentamente disfacendosi.
Il vero motivo per cui sono venuto a Calcutta è che a Trieste un mio amico, su mia richiesta, ha venduto la mia Stratocaster color aragosta, e mi ha mandato cento dollari all'American Express proprio qui, a Calcutta. Molto bene. Sono partito dall'Europa cinque mesi fa, con trecento dollari, e ho ancora qualche soldo: ma cento dollari sono una festa!
In realtà ho nella tasca segreta cucita in fondo ai pantaloni ulteriori cinquanta dollari, ma non sono miei: sono di un mio caro amico che li ha investiti per finanziare un affare internazionale destinato a renderlo ricco: me li ha affidati per comperare dei dipinti a Puri, nell'Orissa, dipinti che dovrebbero essere l'inizio di un formidabile business in Italia.
Prendo un biglietto di prima, sperando che non si ripetano episodi come quello dei poliziotti e dei prigionieri. Preferisco evitare la folla pazzesca che assalta i convogli a ogni stazione. Ormai è un po' di tempo che mi muovo da queste parti, e ho imparato alcune cose, come ad esempio che la poetica dicitura "non-violenza" assume diversi significati in diverse circostanze, significati che dipendono da cosa si intende per violenza. La grassa signora in sari rosa shocking che con un secco colpo d'anca mi sbatte fuori dalla fila mentre aspetto di fare il biglietto e si infila al mio posto, mi fa violenza o no?
Ad ogni modo, dopo qualche mese di momentanei sensi di colpa che sembrano sopravvivere e nutrirsi di un vago sentimento di fratellanza universale verso i poveracci e i miserrimi - per cui tendo a perdonare qualsiasi piccola ingiustizia consentita dalla "non violenza" - mi accorgo che il bastone che ormai è sempre con me è un vero alleato e che rappresenta un simbolo forte e chiaro. Forse le folle non si aprono davanti a me come il mare davanti agli ebrei, ma certamente una zona di rispetto si crea come per magia al mio avanzare nel pullulìo incessante e ossessivo delle stazioni, e persino le dame in sari evitano di sospingermi come fossi un inutile ostacolo.
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