INDIAN TRAIL 30/a: Benares.
INDIAN TRAIL 30/a: Benares.
"Ciao Happy, ciao Lisa. Ci vediamo, Giacomino."
È tempo di lasciare il Nepal per davvero, e di prendere la corriera che mi riporterà in India, una ventina di ore di viaggio passando da Raxaul. "Magari ci vediamo da qualche parte, chissà… Buona fortuna.”
"Addio, Scudo.” Happy mi trattiene per la tracolla del sacco da viaggio, in mano ha un pacchetto di carta. "Ascolta, non staremo qui molto. Abbiamo fatto un po' di soldi, e Giacomino è in forma: mi sa che torniamo in Italia. "
"Mi pare una bella idea, non puoi star qui per sempre. Fra l'altro, se arriva il monsone… "
"Eh, ne abbiamo visti due, di monsoni. È una cosa pazzesca. Per due mesi piove sempre, con gocce d'acqua grosse come noci, diventa tutto un fiume… Mi sa che sì, hai ragione, forse ci conviene partire prima. Dovrò preparare la spedizione…" Sta pensando alle sue merci, e a come farle arrivare in Italia. Mi sorride, mi abbraccia e mi dà il pacchetto, come viatico per il viaggio. Sono i dolcini di Lisa, l'ultima infornata che si fa quando le braci cominciano a scemare. Sappiamo entrambi che ritrovarsi lungo la strada è possibile, anche se improbabile: tutti i viandanti, prima o dopo, passano dalle stesse strade e dormono negli stessi alberghetti, ma spesso in momenti diversi.
Meravigliosi terrazzamenti disegnano il paesaggio continuando per ore e ore, interrotte da boschi fitti sulle cime delle colline; ma ogni angolo lavorabile è terrazzato, per il riso e per l'orzo. Coppie di buoi, o singoli buoi che somigliano a bufali tirano aratri, a diverse altezze. Qualche terrazza è larga un paio di metri, sembra impossibile che i buoi possano rigirarsi senza precipitare. Siamo circondati da una varietà di verdi senza fine, una vegetazione possente, rigogliosa, figlia dei monsoni, mentre la corriera sbuffa scavalcando collina dopo collina, fermandosi ogni paio d'ore per far scendere tutti a bere tè e mangiare dolcetti o involtini piccanti. Io ho i dolci di Lisa, mi basta il tè.
Scavalchiamo una collina un po' più alta delle altre e ci fermiamo sulla cima dove ci sono due o tre tea-shops e una bancherella con fotografie e piccole rocce, e qualche filo di turchesi non tanto belli e di corallini rosati. Nella direzione da cui siamo venuti la vista è incredibile. Il luogo si chiama Everest Point, e da lì, nei mesi senza umidità, si vede un orizzonte di montagne che sembra vicinissimo, con l'Everest, che in effetti è un pochino più grande delle sue vicine, e tutte le altre cime a destra e a sinistra, bianche, ininterrotte fin dove l'occhio riesce a vedere, e fra loro l'Annapurna e il Dhaulagiri ai cui piedi sono passato qualche giorno fa. Saluto le montagne con lo sguardo, mi hanno accolto e protetto, mi hanno lasciato passare dai loro magici cancelli, ponti sospesi, ruscelli di acque turchesi e smeraldine, mi hanno persino fatto ritrovare una deliziosa francese…
Attraverso la terra dove è nato il principe Sakyamuni, colui che divenne il Buddha. Questa è ancora una terra di tigri e di elefanti, tigri non ne incontriamo ma elefanti sì, e rallentiamo pazienti seguendo gli immensi sederoni che ondeggiano indifferenti.
È importante per me essere nella terra dove nacque il Buddha. Pur non avendo un piano ben definito cerco di andare nei luoghi della sua vita, una sorta di pellegrinaggio: sto dirigendomi verso la lontana Bodhgaya, dove sorge l'albero sotto il quale l'asceta Sakyamuni divenne il Buddha. Ma prima di Bodhgaya voglio andare a Benares. Sono disposto a ignorare Agra e il Taj-Mahal, ma Benares, nel mio immaginario, è obbligatoria.
Il fiume è placido, lento e immenso. La pianura che nei millenni innumerevoli è stata sedimentata da infinite esondazioni portatrici di fertile limo himalayano si stende a perdita d'occhio verso sud, a livello dell'acqua. La sponda nord, a una trentina di metri dalla barca che mi trasporta transitando lieve, è un'impressionante teoria di scalinate di fogge e dimensioni diversissime, che dal pelo dell'acqua si innalzano drammaticamente per quindici, venti metri, a sorreggere i templi di molte religioni ciascuno dei quali si affaccia con la propria fede sulla divina Madre Gange. Sono arrivato all'imbarcadero percorrendo una strada che si snoda dal centro, ammesso che Benares abbia un centro, fino al fiume: è una stranissima strada che sui larghi marciapiedi ai due lati ospita gli studi di molti dentisti. Proprio all'inizio c'è una colossale dentiera, bianca e rossa di denti e labbra, manifesto delle attività che seguiranno. Gli studi, o ambulatori, si susseguono senza sosta fino al fiume, e sono piuttosto semplici: un telo steso a terra, coperto di denti di tutte le forme comprese quelle che non possono certo provenire da una bocca umana, tipo cavallo o pecora, che stanno a suggerire la riconosciuta abilità del cavadenti, il quale è nascosto da un secondo telo che funge da tenda a protezione della privacy dei pazienti. Le tende svolazzano di continuo, e con essi la privacy. Ho la sensazione che ogni paziente lascerà un contributo all'esposizione, perché non vedo trapani ma solo pinze e tenaglie. Penso che il Gange porterà via il dolore, così come porta via i peccati dei numerosi e impegnati fedeli che si bagnano nelle sue acque, ciascuno con la sua piccola brocca di ottone o stagno con cui raccoglie l'acqua per le rituali abluzioni. Le scalinate sono molto comode, fatte apposta per quest'uso: ogni tempio ha i suoi fedeli, e ogni fedele deve poter avere accesso al fiume. Donne e uomini, le donne in sari e gli uomini in mutande, tranne i sadhu che girano nudi anche per strada, figuriamoci quando fanno il bagno.
Il barcaiolo dà qualche colpo di remo di tanto in tanto, agita una mano verso sinistra, ovest, e dice con profondo rispetto "This is Varan", indicando la fila ininterrotta di scalinate e templi. Poi indica verso destra, est, e dice "This is Asi ". Anche questa è una stesa di templi arroccati in cima alle proprie scale. Mi guarda e fa "Varan, Asi, Varanasi, Banaras, Benares. " Mi illumino di comprensione: ho incontrato un linguista. Il linguista attira la mia attenzione su alcuni segni pitturati in alto, vicino alla base dei templi e legge le date scritte lì accanto, e un altro numero che testimonia l'altezza a cui è arrivata l'acqua delle inondazioni monsoniche, quando il Gange fa veramente sul serio. Quattordici metri. Sedici metri. Significa che l'acqua è arrivata lassù, a sedici metri più in alto di dove siamo noi ora. Si spiegano le scalinate, ma rimane incomprensibile la quantità d'acqua che deve essere scesa dall'Himalaya per riempire la pianura a sud, che si estende senza fine. Su quel lato, bene in alto sulle proprie roccaforti, c'è solo il palazzo di un antico maharaja, che immagino amasse la solitudine. Tutto intorno, pianura. Non riesco ad afferrare l'idea che quell'estensione infinita possa essere coperta da sedici metri d'acqua.
Il barcaiolo vuole a ogni costo portarmi a vedere i ghat che danno sul fiume, un po' più a monte. I ghat sono i luoghi dove vengono cremati i cadaveri, e le loro ceneri vengono restituite al fume. Pare che i turisti bramino assistere alle cerimonie funebri, la costruzione della pira, i fiori arancioni e le ghirlande, il falò… È vietato intrufolarsi nei ghat, che peraltro sorgono in angusti spazi fra i templi, appena rimossi dalle zone più centrali. Le famiglie si risentono quando qualche turista scatta fotografie a ripetizione da un'irraggiungibile barca sul fiume. Ma io non sento alcuna attrazione, non sono abbastanza morboso e preferisco rispettare i ghat e il fiume. Il barcaiolo è un po' deluso perché il turista in genere dà una mancia per il servizio speciale. Gli prometto la mancia, il Baksheesh, anche se non andiamo ai ghat - che si vedono anche se non si vuole - perché sono proprio lì vicino. Il sole si attenua nel primo tramonto, lentamente ritorniamo verso l'imbarcadero mentre da qualche tempio si innalzano canti, da qualche altro campane, gong, campanelline, preghiere… Il barcaiolo tuffa una mano a coppa nel fiume, beve un po' d'acqua. Il fatto che ogni tanto transiti il cadavere di un animale, un cane, persino un bovino gonfio a gambe all'aria non gli impedisce di assaporare il liquido che ha raccolto. Mi trattengo dal fare osservazioni o domande stupide: come potrebbe non essere buona l'acqua del sacro Gange?
Benares è un labirinto, un continuo intrecciarsi di viuzze e vicoletti densi di umanità, di odori e suoni e voci e colori. Impossibile resistere agli inviti di un ragazzino che mi prende per mano e mi porta a visitare un fantastico laboratorio dove in immensi calderoni si tinteggiano le sete dei sari: l'amico sa benissimo che non comprerò nulla, ma è entusiasta e il suo lavoro consiste nell'accalappiare turisti, non nel vendere le sete multicolori. Char anna, quattro anna, una monetina di Baksheesh e sono libero di svicolare passando fra arcobaleni di stoffe leggere stese ad asciugare.
Ci sono miriadi di oggetti, statuine, collane, chincaglierie nelle innumerevoli bottegucce… Compero una dozzina di minuscole bottigline contenenti polveri colorate, quelle che si usano per decorarsi la fronte: sono troppo carine per resistere, anche se aggiungeranno qualche etto al mio scarso bagaglio.
Un piccolo chela, bimbetto svelto e sorridente, mi invita a visitare una bottega di liutai che costruiscono sitar e vina. È una bottega magica: dozzine di zucche decorate stanno appese alle travi del soffitto, pronte a diventare casse di risonanza per le sitar, che sono strumenti a corde multiple posizionate in maniera assai complessa e con accordature complicate. È lo strumento principe della musica classica indiana, insieme alla sua progenitrice, la vina. Ha avuto un breve periodo di notorietà in occidente, quando alcuni musicisti rock la hanno inserita in qualche loro arrangiamento.
Ho avuto la fortuna, a Londra, di assistere a un concerto di Ravi Shankar, uno dei grandi maestri dello strumento. Insieme a lui c'era Alla Rakha, leggendario suonatore di tabla, la coppia di tamburi da cui faceva uscire cascate e cascatelle e raffiche di suoni variegati a commento e accompagnamento al sitar. Una cosa incredibile: i due dialogavano eseguendo scale e ritmi velocissimi, salvo rallentare in certi passaggi melodici… veramente magico. Sorprendentemente il fatto che l'accordatura del sitar fosse fissa e quindi tutto il concerto avvenisse nella stessa chiave armonica, non rendeva per nulla noioso l'ascolto. Certo, si trattava di due dei più grandi, e forse i più grandi, strumentisti esistenti.
È probabile che Shankar avesse concesso al pubblico occidentale un concerto abbreviato, rispetto alla durata normale di un concerto di raga classici. Un concerto classico, in India, può durare benissimo quattro o cinque ore, e oltre. Un raga è una struttura melodica basata su scale definite, ma che richiede ore di improvvisazioni: bisogna essere dei veri conoscitori per apprezzarlo appieno.
Campane, campanelle, corni e trombe si risvegliano all'imbrunire per salutare dall'alto dei templi il sole che tramonta sul Gange, mentre migliaia di indù compiono le abluzioni serali sulle scalinate che si immergono nel grande fiume.
Raggiungo la mia piccola Lodge, impacchetto le bottigliette per proteggerle e traccio qualche disegno sul quaderno di viaggio: un sadhu accovacciato che guarda l'orizzonte.
Domani sarò sul treno che mi porterà verso uno dei luoghi che voglio vedere nel mio pellegrinaggio: Bodhgaya.
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