Il treno si ferma duecentocinquanta chilometri più a est nella cittadina di Gaya che è a sud di Patna e appena un po' più a nord di Bodghaya. Gaya è una cittadina deliziosa, tranquilla, pulitissima e ordinata. In realtà ha quasi mezzo milione di abitanti, ma sembra di essere in un villaggio. Cammino in mezzo a una strada centrale e quasi priva di traffico e sgranocchio una carota ammirando la pulizia dei dintorni: sto andando alla fermata della corriera che mi porterà, spero, alla mia meta.
Un negoziante con dothi a mezza gamba e camiciola esce lesto da una bottega e mi si avvicina, in mano ha un bastone: ma non ha l'aria aggressiva, sembra anzi amichevole.
"Sir? "
"Yes? "
"Hai bisogno di questo bastone. È fatto apposta per te. È il tuo bastone ".
Lo prendo in mano, lo soppeso. È bambù, molto denso e solido. Ne vedo altri esposti fuori dalla bottega, molto più lunghi. Questo è normale, dell'altezza giusta, con un nodo che funge da manico e un serpentello di latta che si avvolge intorno al fusto. Il puntale è di ferro. Mi piace. Lo compero, costa pochissimo, meno di un riso e lenticchie. Ringrazio e procedo verso la stazioncina.
Arrivo a Bodhgaya in un torrido e polveroso mezzogiorno di gennaio, quando per strada gira solo qualche raro monaco e qualche viandante semisperduto.
Questo è il luogo dove seicento anni prima che nascesse Cristo ebbe luogo uno dei grandi miracoli dell’umanità: l'Illuminazione del Buddha. L'evento segnò il destino di milioni di esseri umani, e diede origine a una filosofia spirituale dedicata all'evoluzione di ogni essere, già nato o che attenda di nascere.
Le trasformazioni e traduzioni successive ne trassero ispirazione per costruire una religione, che a tutt'oggi conta centinaia di milioni di fedeli.
Il mio occhio cerca i segni visibili di quel magico evento avvenuto nell'invisibile, una traccia rimasta insepolta, fosse pur nascosta dalle manifestazioni di devozione che, come si sa, pur variando nei dettagli e nelle forme sono sostanzialmente uguali per tutte le religioni organizzate.
Mi avvicino all'albero sotto il quale, dice la tradizione, il Buddha si sedette e da dove non si mosse finché non raggiunse l'Illuminazione.
Non sono un credente, né, per natura ed educazione, un devoto: ma sono sensibile ai messaggi che dal mio profondo ogni tanto emergono per guidarmi, segnali dei quali mi fido come un bimbo che si adagia fra le braccia della madre. Per questo sono a Bodghaya, a rendere omaggio a uno dei grandi dell'umanità.
Migliaia di bandierine colorate danzano nelle correnti d'aria secca e calda, ex-voto affollano le nicchie occupate da divinità minori, qualche fedele compie ininterrottamente un rituale che sembra un esercizio ginnico: giù sulle ginocchia, scivolare in avanti sulle mani protette da due slittini di legno, proni a terra, ritirarsi in piedi, giù sulle ginocchia…
L'antico ficus sotto il quale il Buddha storico raggiunse la Bodhi, ovvero l'illuminazione, assiste imperterrito agli andirivieni di devoti e credenti, ognuno con la sua preghiera, ognuno con la sua speranza. Non si tratta naturalmente della stessa pianta, che avrebbe duemilaseicento anni, ma pare sia una diretta discendente del ficus originale, e che dunque ne conservi la memoria.
Vedo avvicinarsi un monaco avvolto da uno sbiadito scialle arancione, gli vado incontro, assetato di conoscenza. Scambiamo qualche frase in inglese, poche battute perché mi propina quasi subito una lamentela: lui viene da Bangalore, molto più a sud, e da quando è arrivato qui una decina di anni fa ha sempre freddo, sempre un gran freddo. Non me lo spiego, fa un caldo tremendo. Intuisco che non possiede la bacchetta magica distributrice di illuminazioni. Non riesco nemmeno a simpatizzare con lui, come se mi avesse sottratto qualcosa, vanificato un'aspettativa. Forse per il momento le illuminazioni si sono esaurite, sotto quest'albero.
I luoghi sono le piccole stelle del firmamento che il viaggio va delineando, ciascuna con il suo colore, la sua dimensione, la sua distanza. E via via che prendono la forma dell'esperienza e da sogno si trasformano in ricordo divengono punti e immagini nella costellazione del trascorrere del tempo.
Bodhgaya non è posto dove stare a lungo, e la notte che trascorro in una delle casette che ospitano i pellegrini - qui arrivano buddisti, induisti e jainisti da tutta l'India perché è uno dei luoghi più sacri del continente - è destinata a essere l'unica. Non è che mi aspettassi chissà quali folgorazioni, e sono felice di aver reso omaggio a un sito così importante: tuttavia mi accorgo che forse mi aspettavo qualcosa di diverso, di meno umanamente banale. Ingenuo sono, e pretenzioso.
Sono un po' affaticato, e mi trovo a fare alcune considerazioni…
Essere sulla strada è un pellegrinaggio che il mio spirito intraprende, spesso a mia insaputa, un'immersione nei nuovi linguaggi, nelle linee originali e inaspettate dei paesaggi, nelle architetture che con la loro complessità trasmettono il genio e la fatica di elaborazioni secolari. Il processo di apprendimento dei nuovi dati, il loro sommarsi fino a raggiungere una massa critica e il conseguente lavoro di adattamento, quindi di revisione di parti significative del mio sistema di credenze, genera una specie di ipnosi che funziona da canale di comunicazione con l'inconscio. La diversità dei cibi, gli abiti inconsueti, i suoni inusuali, usi e costumi bizzarri e inaspettati, tutto mi chiede di aprirmi, di lasciar andare le redini dell’abitudine per immergermi libero nella nuova realtà. Scopro che irrigidirmi nel sistema di giudizio invece di rilassarmi nell'apprezzamento, lungi dall'essere un valido scudo a difesa di ipotetiche aggressioni culturali serve piuttosto a ingabbiarmi nel mio minuscolo universo, universo tenuto insieme dalle miriadi di piccole leggi e psicoammortizzatori e pregiudizi di cui la società (e la mia pigra acquiescenza) mi hanno ben provvisto. Queste armature, in un lungo viaggio, pian piano manifestano la loro inadeguatezza, e il ritmo della mia vita e dei miei pensieri e aspettative acquista via via una nuova pulsione, un nuovo battito. Sono il passo e la pulsione del mio spirito, di quella parte della mia persona che raramente viene sollecitata nel grande mondo delle abitudini, ma che appena il network quotidiano perde di congruità, ha modo di manifestarsi quale vero strumento di comunicazione con l'ignoto. Ed è nell'esplorazione dell'ignoto che posso scoprire nuove risorse e sorprendenti abilità, incontro gente speciale, intravvedo piccole illuminazioni e insight: in altre parole, imparo e cresco. Almeno, spero.
Nel frattempo mi sento un cretino ad aver mal giudicato il povero monaco morto di freddo e ad averne in qualche modo disprezzato le debolezze. Chi sono io per sottovalutare le devozioni ginniche di migliaia di fedeli? Ogni religione, ogni fede che si rivolga a grandi quantità di persone costruisce un sistema di comportamenti e di regole che forniscono il pentagramma su cui si fonda l'identità del gruppo. E il senso di appartenenza al gruppo, alla tribù, è essenziale per la certezza della propria identità.
Quanto più complicati sono i rituali, quanto più restrittive e circostanziate le norme, tanto più forte è la coesione del gruppo e tanto più rassicurante ne è, per l'individuo, l'appartenenza. E naturalmente tanto più grande è la possibilità di esserne manipolato.
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