INDIAN TRAIL 28/a: continua la Passeggiata nel Mustang.
INDIAN TRAIL 28/a: continua la Passeggiata nel Mustang.
Attraversiamo la sella. Il vento lassù ci investe formidabile ma si addolcisce un po’ scendendo più a valle.
Camminiamo per tutta la giornata, Brian e io, scendendo dal passo di Gorepani a 3200 metri di altitudine fino al ridente villaggetto di Tatopani, a 1300, all'incrocio di tre valli che sembrano esser dotate di un microclima speciale, perché la zona è circondata da una inaspettata e fitta vegetazione che segue il corso dei torrenti e ne addolcisce gli argini rocciosi.
Ci sono due grandi attrazioni, a Tatopani: una, permanente, è una fantastica polla d'acqua calda. L'altra, transeunte, è Lauren, la bella francese dai capelli rossi con cui ho condiviso alcuni deliziosi giorni a Kabul. Sta seduta in un salottino della migliore Guest House del villaggetto, con due o tre bei giovani dai lunghi capelli. Si alza e mi abbraccia: è una occasione rara rincontrarsi su questi sentieri. Mi invita al suo tavolo e al suo chai. Brian fraternizza con i tre ragazzi, capisce che è meglio lasciarmi solo con la ragazza. Per celebrare la magìa dell’incontro troviamo addirittura un letto, sia pure di corda. Pareti di legno, pavimento di legno, riscaldamento zero: ma non ne sentiamo il bisogno. La finestrella guarda la valle sterminata da cui sono arrivato, e da cui ripasserò al ritorno. Stasera finalmente riso fritto, e tè senza latte. E il dolce abbraccio di Lauren.
L'indomani Lauren riparte per ritornare a Pokhara. Ci stringiamo un momento, ci baciamo sapendo che forse non ci vedremo più: ritrovarsi fra queste montagne è una perla da intrecciare nella collana della memoria.
Brian mi fa: "Andiamo insieme a Jomsom, che ne dici?" È proprio quello che stavo pensando.
"Certo, andiamo insieme… fra qualche giorno ". Annuisce, la barba bionda un po' striata dal fumo dei bidi che ha sempre in bocca. Abbiamo entrambi un buon libro da leggere e poi scambiare, io ho i Fratelli Karamazov che sto finendo… È essenziale avere un buon libro, in questo viaggio. Qualcosa di duraturo, sulle mille pagine. Penso che serva un po' come filo di continuità.
Brian e io siamo entrambi di poche parole, ci facciamo compagnia senza parlare molto. In fondo quando si decide di partire da soli per un viaggio del genere è probabile che si sappia stare bene da soli, e la compagnia è di solito temporanea, casuale. Alleati indipendenti, siamo. E il secondo giorno, scoperta una scacchiera nel ripiano basso della piccola libreria, diventiamo anche compagni di scacchi. Mi pare che lui sia un po' più bravo di me, che sono un cane: lui ci pensa bene prima di azzardare una mossa, mi pare che muova seguendo una logica… Io sono puramente tattico, tiro a salvarmi… Ma è divertente. Naturalmente ne busco senza pietà.
L'indomani verso sera vado a visitare la polla d'acqua calda che dà il nome a Tatopani, che come dicevo significa 'acqua calda'.
Mi immergo pian piano nella grande e pulita vasca naturale, una conca meravigliosa di una decina di metri di diametro seminascosta fra le rocce e la vegetazione di canapa e cattails. È profonda circa un metro, è l'acqua è perfetta. È calda e avvolgente e nell'acqua, dall'altra parte, c'è una graziosa ragazza nepalese dai lunghissimi capelli neri, e con lei un'altra donna un po’ più vecchia. Chiacchierano e ridono, sono entrambe vestite e per nulla imbarazzate dalla mia presenza. Ci salutiamo, namastè namastè. Mi appoggio a una soffice roccia levigata: quest'acqua è una vera meraviglia, accarezza la pelle e non ci si abitua mai al suo taumaturgico tepore.
Il sole sta tramontando e illumina di vivido arancio dorato il grande dente del Dhaulagiri, che emerge affilato dalla cornice delle ormai scure montagne circostanti, incastonato nel cielo azzurro diamante. È una vista mozzafiato, la punta della montagna di roccia viva è sorretta da una piramide acuta la cui cima svetta ben oltre gli ottomila metri, cioè settemila metri più in alto…. Ecco uno dei posti dove vorrei tornare quando, e se, avrò la ventura di rinascere.
"Brian, dovresti andare alla polla. È meravigliosa. C'è un'altra vasca, più in basso, ci si può fare il bucato. Domani ci vado." Basta così: capisco che è troppo impegnato a finire "Venti di guerra" per sentir consigli.
Scacchi, libro, riso fritto, una antica macchina distributrice di Coca Cola color rosso fuoco che deve esser stata trasportata sulla groppa di qualche sherpa, un comodissimo letto di corda e la deliziosa polla d’acqua calda, Tatopani. Dispiace un po’ che Lauren sia ormai lontana, ma è un bene che ognuno sia libero di seguire i propri ritmi e predilezioni.
La bella vita non dura a lungo, e dopo tre giorni di squisite, carezzevoli pancakes e altre leccornie riprendiamo la strada, o meglio il sentiero. Ormai si procede fra pietraie e rocce, la vegetazione è scomparsa e il vento insiste continuo nelle ampie valli che i ghiacciai hanno abbandonato ritirandosi qualche milione di anni fa. Ogni tanto ci sono gruppetti di case di pietra arroccate sui fianchi delle montagne, quasi indistinguibili dalle rocce circostanti se non per le bandierine multicolori che sventolano senza sosta; e qualche tempio isolato, a guardia del sentiero. Mi rifornisco di carote e qualche cipolla in una fattoria che, inaspettatamente, troviamo sul cammino. Fondata e gestita da tedeschi, naturalmente, che devono aver scoperto della terra lavorabile fra i sassi del Mustang e vi si sono insediati. Anche lungo altri antichi sentieri alcuni immigrati tedeschi hanno creato piccole fattorie, come ad esempio il caseificio lungo il trek dell’Everest. Mano d'opera locale, zappette e sarchielli e via andare, con le pellicce rimboccate in vita a pulire file e file di ortaggi himalayani protetti da spessi muri a secco. A parte le verdure, il cibo è di nuovo scarso e le proteine diventano ben presto un ricordo finché le pietraie si aprono in una ampia vallata spazzata dal vento, al centro della quale ci appare, lontana lontana, Jomsom. Ci saremo prima che faccia buio, perché anche se le distanze da queste parti sono rese ingannevoli dall'immensità delle montagne e dalla limpidezza dell'aria, villaggi e villaggetti sorgono sempre a intervalli che permettono al viandante di arrivarci in tempo per la notte. Chiaro, se galoppa.
Raggiungiamo Jomsom, che è la meta della passeggiata. Ne è la meta e ne è pure la metà, visto che al ritorno bisognerà rifare tutto il percorso.
Jomsom è grandicella: essendo uno dei passaggi obbligati per chiunque vada dal Tibet all'India o viceversa, nel corso dei secoli si è articolata in una miriade di casupole di pietra pronte ad accogliere viandanti e carovane e a ricoverare masserizie in transito o stoccate in attesa dell'inverno. La vasta valle di pietre, piccoli templi e stupa imbandierati da garrule strisce di tessuti colorati è abbracciata dalle montagne che proprio lì hanno deciso di lasciare un varco, uno dei pochi, che permettesse il passaggio a umani e animali dagli altipiani del Tibet alle pianure dell'India. La leggenda dice che a ben guardare si possono vedere le guardie rosse laggiù, al confine con il Tibet, a strenua difesa della grande Cina: ma io, anche pulendo per bene gli occhiali, non le vedo.
Ci fermiamo un paio di giorni a Jomsom, ma entrambi cominciamo ad avvertire la nostalgia di climi più temperati e di panorami più morbidi. Qui tutto è pietra, roccia e sasso. Ah, e vento, vento incessante.
Ci informano che esiste un areoplanino che attende chi è troppo stanco per ritornare a piedi e che si può abbordare sborsando un bel po' di dollari: lo usano di solito quei pigroni che già all'andata si son fatti portare il bagaglio dagli sherpa.
Ma è chiaro che in un gesto del genere non c'è gloria, e non si può certo lasciare l'onore appeso a un chiodo a Jomsom.
Torneremo a piedi: cosa saranno mai un altro centinaio di chilometri?
Nella foto: Il Dhaulagiri al tramonto. 8167m
Commenti
Posta un commento