INDIAN TRAIL 27/a: continua Passeggiata nel Mustang.
INDIAN TRAIL 27/a: continua Passeggiata nel Mustang.
Duemilacinquecento metri sul livello del mare, e sono in piena giungla: alberi grandissimi, luce a ventaglio, ruscelli; quando attraverso qualche radura grandi scimmie grigie si spostano fra le frasche e le fronde osservandomi da lontano. Qui devo stare attento, il sentiero non è ben segnato, forse perché la vegetazione lo copre continuamente; mi sfiora il pensiero delle tigri - ogni anno ci sono delle vittime umane - ma se ben ricordo le tigri vivono più a sud…Speriamo bene. Già le scimmie mi inquietano un po', figuriamoci le tigri. Una coppia di occidentali sta venendomi incontro, ho visto prima il bagliore degli occhiali di lui e poi la fiamma gialla della capigliatura di lei, entrambe apparizioni inconsuete. Ci fermiamo per qualche minuto, il tempo necessario a scambiarci stringate informazioni. Sembra che nel mio immediato futuro, appena uscito dalla giungla e dopo la sosta notturna, mi attenda un letto di fiume vastissimo e una dura scala in salita che prelude a un tratto di percorso le cui caratteristiche avrei preferito ignorare.
Il letto di fiume è talmente largo che ci vuole tutta la mattina per attraversarlo. E’ il verde, gelido Gandaki, e la sua valle Kali Gandaki è la più profonda valle del mondo. Ciottoli bianchissimi coprono tutta la valle, coperti qua e là da rivoli di acqua verde e turchese, minuscole avvisaglie delle piene possenti che fra qualche mese inonderanno tutta l'estensione visibile. Il sentiero è appena distinguibile: la lievissima depressione dei ciottoli e il loro giacere quanto più piatti possibile ne rende l'ombreggiatura appena diversa dall'immensità circostante, e bisogna chinarsi a guardare in tralice, rasoterra, per individuare la traccia: qualche fatta di bue muschiato aiuta, come pietra miliare, a riconoscere il giusto cammino. Evitare le storte alle caviglie è essenziale, così come è una indispensabile evitare di mettere i piedi nell'acqua ghiacciata.
Mi ci vogliono altre due ore per arrampicarmi su erti gradini smozzicati che finiscono a mezza parete, buoni trecento metri più in alto, e slargandosi in una piccola piattaforma lasciano vedere l'inizio di un tratto di sentiero che è stato letteralmente scolpito nella parete di roccia. Se ne vede l'inizio, ma non la fine: è largo un metro e mezzo, spesso lievemente inclinato verso l'esterno, a sinistra c'è la parete impenetrabile e a destra c'è il baratro. Niente balaustre: laggiù risplende placido il candido letto del fiume, miniaturizzato dalla distanza. Devo vincere un'ancestrale paura degli orridi, convincere i polpacci a fare il loro dovere e sperare che l'antico richiamo "Hey, ho!" non risuoni scoppiettante dietro di me. Un'idea sia pur macabra mi fa sorridere: sarebbe ironico esser travolto da una ghiacciaia sull'Himalaya. Ma certo l’amico Sherpa è ormai parecchio più avanti. Avanzo titubante, mi rinfranco, ammiro l'eterno lavoro di scalpello che ha permesso di realizzare un'opera del genere. Scavato nella roccia il sentiero procede per un bel po' con lo strapiombo a lato, poi si interrompe per attraversare una gola stretta e profonda prima di ricominciare sull'altro lato. Il mio stomaco è stretto a pugno, oso fino all'orlo perché non posso fare altro. Due miserrimi tronchi attraversano l'orrido scavalcando il vuoto e reggono qualche tavola sconnessa e palesemente mezza marcia; mi faccio leggero leggero, tre passi e sono dall'altra parte, evitando di guardare di sotto. Procedo lungo il cunicolo, ma un secco suono di campana lignea mi paralizza sul posto: ecco quello che temevo forse ancor più dello sherpa accelerato. Una carovana piccola ma micidiale sta venendo verso di me sullo stesso sentierino: per primo appare un tibetano dal cappello a tronco di cono e giaccona e bragone e stivali impellicciati che mi sorride strizzando gli occhi dalle mille rughette. A lui sembra tutto facile e normale: "Namastè" "Namastè", ma a me, che sono appiccicato alla parete cercando di penetrarvi, sembra tutto molto grave. Arriva il primo yak, basso, peloso e larghissimo; il carico che porta è più largo di lui, e mentre l'animale mi struscia contro col suo pelo ruvido che pare una capigliatura rasta io mi accuccio per far passare anche il carico, che altrimenti mi rovinerebbe la piega dei calzoni. Passato il primo yak eccone altri due, stracarichi anche loro, dondolando sui loro zoccoli larghi e sicuri. Le grosse campane di legno rintoccano, accompagnate dai tintinnii argentini delle campanelle delle capre, che seguono in fila i loro maggiori. Passano tre donne, una con bimbo in braccio, con vivaci foulard, visi allegri e numerose collane di grosse perle di corallo fossile e turchese. Seguono bimbetti di varie dimensioni, anche loro con carichi proporzionati. Sono tutti vestiti di giacconi e stivali caldissimi, i bambini sembrano delle deliziose bamboline. Anche i due cani che precedono l'uomo che chiude la carovana sono dotati di basto e carico adeguato. Ognuno porta il proprio cibo e il proprio combustibile. Questi non stanno facendo un trekking: questi ci vivono su queste montagne, e l'esperienza millenaria ha loro insegnato che la sopravvivenza è, prima di tutto, responsabilità individuale.
Stanchissimo, affamato, benedico il champa porridge che mi danno in una delle quattro baite che stanno al limitare dell'altopiano coperto di conifere: abeti e cedri deodara a perdita d'occhio, una vera fascia climatica che attraverserò domani.
L'indomani, un vento costante muove le nuvole nel cielo lucente e porta il profumo delle resine. Mi sto avvicinando alle pietraie che segnano la fine dei boschi e che fanno da pendici alla parete quasi verticale del Dhaulagiri, una delle montagne più alte del mondo. Nano fra i giganti procedo ai piedi dell'immensa montagna. Sulla destra c'è un tempio di pietra con centinaia di danzanti bandierine colorate, sottese da corde fra i sobri pinnacoli delle garitte. Su un rialzo fra le prime pietre del piano inclinato che si erge a sostenere il dente del Dhaulagiri, alla sinistra del sentiero, un piccolo stupa votivo, con bandiera verticale e Ruota della Vita. Devo muovermi: bisogna che raggiunga Gorepani prima di sera, e Gorepani è ancora lontana.
Osservo in lontananza la sella che l'indomani dovrò attraversare, svariate centinaia di metri più in alto. Solo sassi, vento e la pazzesca parete del Dhaulaghiri sulla sinistra, verticale, tre-quattromila metri di roccia. A destra, un po' più distante, c'è l'Annapurna, Coda di Pesce, anche lei un ottomila, anche lei immensa. Il sentiero affronta una lunga valle pietrosa cosparsa da miriadi di rocce di ogni dimensione precipitate nel corso dei secoli, e in fondo si inerpica su per l'erta che conduce a Gorepani, Acqua Fredda, un piccolissimo nido di casette, ma direi meglio baracche di legno e pietra, abbarbicate sul versante sud del passo spazzato senza sosta dalle gelide correnti del nord, a un centinaio di metri sotto la sella, per essere protette dagli incessanti venti tibetani.
Non sono molto protette, a dire il vero, le casupole. Il vento si insinua sibilando nelle fessure fra i tavoloni e i sassi che formano le pareti, modulando un canto che mi accompagnerà per tutta la notte. Al centro della baita brilla un fuocherello, una vera benedizione: un americano biondo, Brian, e io siamo gli unici ospiti, accoccolati quanto più vicini al fuoco possibile. Ogni tanto appare un vecchissimo nepalese che procede a gambero sulle gambe piegate e aggiunge un minuscolo pezzetto di corteccia al fuoco. Capisco che il combustibile è raro: le grandi distese di conifere sono ormai lontane e questo piccolo insediamento sta in mezzo a pietraie sconfinate dove la vegetazione è scarsissima e stenterella.
"Domani, Tatopani, Acqua Calda " dice l'americano. Sorride fra baffi e barba biondi, fumando un bidi indiano.
"Domani Tatopani. Oggi intanto Gorepani, Acqua Fredda." confermo io scaldandomi le mani con la tazza di tè e cercando di proteggermi dallo spiffero spietato che insiste ad accarezzarmi la schiena.
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