INDIAN TRAIL 26/a: Passeggiata nel Mustang.
INDIAN TRAIL 26/a: Passeggiata nel Mustang.
Mi sono portato un buon paio di scarpe, possiedo una sciarpa afghana larga e lunga di caldissima lana e il mio zainetto con sacco a pelo e qualche indumento. Questa della sciarpa è stata una grande idea: mi copre le spalle, si incrocia sul petto e, circondando i fianchi, arriva alle reni dove la fermo con una cinta fatta di un fazzolettone turchese. Anche il sacco a pelo merita un cenno: disegnato dall'alpinista Comici, leggerissimo e dotato di minuscole piumette d'oca è servito a mio padre alpino durante la guerra in Albania, poi a mio fratello boy scout e infine mi ha accompagnato per tutto il servizio militare, quando dormivo sul pavimento dell'ufficio Maggiorità per evitare le nottate in camerata. Adesso è sull'Himalaya, anche lui in gita. È assai vecchio, e le piumette ogni tanto escono da qualche cucitura e mi titillano le narici facendomi starnutire, e il tessuto che le contiene è ormai quasi trasparente: ma l'insieme funziona ancora benissimo.
Lascio Pokhara alle mie spalle, attraverso il campo tibetano seguendo il sentiero largo e ben tracciato, alcune donne tibetane stanno tessendo tappeti, allegre rispondono al mio saluto: "Namastè!" "Namastè!!" Le sento ridere mentre mi allontano, chissà quanti camminatori hanno visto passare, chissà se commentano… "Guarda quello! Guarda che zaino, non ce la farà mai " "E questo qui? Per me questo si ferma a Naudanda (sarebbe la prima tappa) e poi torna indietro!" "Toh, eccone altri due: questi forse ce la fanno ad arrivare da qualche parte, con quegli altri che gli portano gli zaini…" È vero: qualcuno, ricco e pigro, si procura dei portatori Sherpa per liberarsi del peso del carico: uno Sherpa è in grado di sgambettare su e giù per le montagne a una velocità almeno doppia rispetto alla nostra, sia pur portando una quarantina di chili sulla groppa. Per lui queste son passeggiate.
Il falsopiano è lunghissimo e si addentra in una folta vegetazione coltivata, aranceti e manghi, papaye, palmette di banane, grandi fiori, uccelli e piante mai viste. È stranissimo essere a quasi duemila metri di altitudine e trovarsi fra aranci, liane e piante tropicali. Villaggetti e casupole sparse sorgono lungo il sentiero, qualche cane e qualche gallina occhieggiano il passante: la vita scorre lieve ai piedi delle immense montagne.
Verso sera trovo ospitalità in una casetta, una vecchina dagli occhi stretti e ridenti mi prepara la sua versione del piatto nazionale nepalese a base di orzo sfarinato cotto nel latte di bufala detto champa porridge: mi capiterà di sorbirlo numerose altre volte, la sera prima di crollare felice nel mio sacco a pelo.
Ci sono sette o otto sentieri che attraversano il Nepal in direzione nord-sud, con varie circonvoluzioni a seguire valli e vallette, e sono stati percorsi per secoli nelle due direzioni da viandanti e mercanti nepalesi e tibetani, in genere organizzati in piccole carovane ciascun membro delle quali porta un carico considerevole sulla groppa. Strade come le intendiamo noi, quassù non esistono. Gli yak, grossi buoi muschiati col pelo lungo fino a terra e ghirlande e campanelline appese alle corna e intrecciate al vello, le capre con piccoli basti, anche loro tintinnanti, i bimbetti con gerle in miniatura… a nessuno è risparmiato l'onere di viaggiare portando i propri averi e i propri affari, oltre ai legnetti per il fuocherello serale. Per secoli su questi sentieri è stato trasportato il sale estratto dalle miniere di salgemma tibetane, e per raggiungere la piana del Gange duecento chilometri più a sud non c'era altro modo che attraversare l'Himalaya a piedi. Giunto infine a Patna e altri luoghi, il sale veniva scambiato con beni di tutti i generi, stoffe, curcuma e curry, argenti e pietre dure che pian piano risalivano le valli e le verdeggianti risaie, le giungle e le catene montuose rivestite di cedri e abeti prima di aprirsi in pietraie spoglie da cui svettavano le pareti rocciose, nude e gelate fino ai ghiacciai immensi e le nevi perenni.
Noi esploratori della poesia del mondo e ricercatori di ispirazione ripercorriamo oggi quelle stesse vie che non hanno mai conosciuto ruota di veicolo, ma solo piedi umani e animali che indovinano il giusto sentiero nell'impossibile labirinto di argini e dighe delle risaie o sulle scalinate senza fine che percorrono e valicano le colline. Osservo indeciso l'estendersi di migliaia di piccoli appezzamenti sommersi in cui è suddivisa la risaia: sugli argini corre a zig-zag un invisibile, strettissimo percorso che prima o poi immagino debba arrivare dall'altra parte. Ogni tanto c'è un ponticello e se riesco a non finire in acqua troppe volte, verso metà giornata posso sperare di raggiungere una capannuccia che intravvedo laggiù, al limitare della foresta. A sera un destino benevolo mi concede, oltre al champa porridge e al tè e latte caldo, un uovo e un pomodoro.
Non tutte le colline si possono aggirare: molte sbarrano la via e per girarci intorno bisognerebbe addentrarsi in valli laterali che allungherebbero troppo il cammino, e in cui è facile perdersi. La via del sale si inerpica ripida gradino dopo gradino, innumerevoli gradini scavati nella roccia in tempi dimenticati, per poi scendere a precipizio, sempre a scale e curve improvvise, verso la prossima valle. I fianchi dei colli son tutti terrazzati, un lavoro senza fine che deve aver impiegato generazioni di nepalesi: le linee eleganti dei terrazzamenti ingentiliscono il panorama, un contadino sta arando una piccola virgola di terra con un bue che a malapena riesce a girarsi nello spazio angusto. Mentre risalgo la prossima collina soffermandomi a prender fiato e ad ammirare le complicate prospettive di valli e terrazze sento un "Hey, ho! " provenire da un centinaio di gradini più in basso. "Hey, ho! ", un richiamo ritmico che si avvicina lesto, anche se ancora non se ne vede l'origine. Mi sposto fuori dallo slarghetto su cui sto sostando mentre con un ultimo "Hey, ho! " appare uno Sherpa dal viso rugoso e abbronzato e con la fronte attraversata da una cinghia imbottita, a reggere l'enorme carico che gli grava sulle spalle. Lungi dall'inerpicarsi faticosamente, i piedi scalzi del nepalese scattano di un gradino in gradino in una corsa ritmica che stroncherebbe camminatori molto migliori di me: l'amico corre in salita su per una scala di pietra irregolare lunga diversi chilometri portandosi addosso una gerla colossale da cui sporge un cubo bianco che sembra un assurdo, incongruente elettrodomestico: dev'essere una ghiacciaia, perché le ultime forniture di corrente elettrica si fermano a Pokhara, tre giorni di cammino indietro. Da dietro gli guardo le gambe, che con guizzi meravigliosi di muscoli temprati sollevano in apparenza senza sforzo un peso complessivo di almeno cento chili. Lo sherpa è magro, ma la ghiacciaia che trasporta è bella grassa.
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