INDIAN TRAIL 24/a: Kathmandu
INDIAN TRAIL 24/a: Kathmandu
Patna sta nello stato del Bihar, e oltre a essere famosa per la produzione di riso è anche nota per la presenza di innumerevoli zanzare, alcune delle quali sono pericolosissime. Una delle peggiori è una Culex che è parte essenziale del ciclo di trasmissione della Filaria, un orrendo parassita che provoca, fra le altre cose, l'elefantiasi, cioè uno spaventoso ingrossamento di alcune parti del corpo, ad esempio le gambe, che diventano enormi: per l’appunto, elefantiache.
Il treno è arrivato nella stazione alle due del mattino, un'orario che rende impossibile trovare alloggio, cibo, conforto. Nemmeno i venditori di chai sono più in giro.
In giro in compenso ci sono cani randagi, qualche maiale, una mucca biancastra che dorme beata sul marciapiede. Trovo un rialzo, una specie di panchina fuori da un negozio: di giorno dev'essere il banco di esposizione delle merci. È solo una stretta piattaforma di pietra, ma è abbastanza lunga da accogliermi disteso, e sta a quasi un metro da terra. Mi avvolgo da capo a piedi in un paio di lunghi, il sacco mi fa da cuscino, non tolgo nemmeno le scarpe e mi accomodo. Un paio di cani vengono a esplorarmi, spero che siano bravi e buoni. Un maialetto passeggia per la via. Le zanzare sembrano ignorarmi. Forse si sono accorte che sono un intoccabile.
Mattina presto, mi muovo prima che apra il negozio e trovo una bottega che sforna chapati e provvede del tè, chai. Devo procurarmi il biglietto aereo per il Nepal, perché quella è la mia prossima meta. Trovo anche un alberghetto perché ho bisogno di riposare un po' meglio, questa notte. La stanzina ha un lettuccio di corda e una zanzariera. Domani si vola.
Qui non ci sono tante Api Piaggio a fare i trasporti, e il servizio taxi avviene mediante biciclette a triciclo, i riksciò, dall'apparenza esile e caduca ma che sono capaci in realtà di caricare volumi inverosimili di persone e bagagli. L'indiano che pedala sul suo triciclo mi porterà fino all'aeroporto, a svariati chilometri di distanza, ed è affetto da un'elefantiasi impressionante. Le gambe vanno come pistoni, e i polpacci hanno dimensioni gigantesche rese ancor più evidenti dall'esilità del corpo asciutto del ciclista. Avvolte da bende svolazzanti mi ipnotizzano col loro movimento ritmico, spero che non gli si incastrino nella catena del triciclo. Come anche in altre occasioni devo disciplinare le mie emozioni di viziato occidentale, che mi fanno sentire in colpa perché sto sfruttando un poveraccio che lavora come un mulo per portarmi a spasso. In fondo però mi rendo conto che questo è il suo mestiere e che gli sto dando del lavoro. Non posso certo cambiare il mondo.
Dopo un'ora di pedalate arriviamo all'aeroporto. Gli lascio una lauta mancia che sembra farlo assai felice.
Kathmandu
Kathmandu è uno dei nomi il cui suono ha lungamente danzato nel mio mondo poetico.
È un gioiello situato al centro di una valle costellata di villaggi e stupa votivi dai grandi occhi dipinti. Come una perla riposa incorniciata in una grande conchiglia, abbracciata da declivi e colline e poi montagne a perdita d'occhio, le nevi eterne risplendenti nel terso sole invernale.
L'aeroplanino rimbalza un paio di volte sulla pista prima di fermarsi a due passi dagli uffici portuali, una ventina di persone scendono e ben presto si sgranano in una specie di gara fra riksciò verso la città. È la prima volta che vedo un orizzonte di cime nevose: le montagne cui sono abituato, cioè le Dolomiti, offrono certo panorami bellissimi eppure sempre ben circoscritti; qui lo sguardo spazia da destra a sinistra, quasi si fosse al mare, e la linea increspata di cime nevose è ininterrotta fino al suo sfumare nei margini violetti.
Scopro che un cielo così limpido c'è solo d'inverno: in genere l'Himalaya è ammantato di nubi e nebbie e da lontano se ne vede ben poco. Ma è inverno, la stagione giusta per vedere lontano.
Templi, case, piazzette e vicoletti sono inghirlandati da miriadi di decorazioni di legno scurito dal tempo, e sembra che ogni elemento costruttivo sia stato scolpito, intagliato, smerlettato con pazienza infinita e grande abilità. Moltissime nicchie e angoli ospitano piccoli altari infiorati d'arancio e profumati di sandalo e muschio, la gente sorride con facilità come se la configurazione del viso, con gli occhi stretti e le gli zigomi alti e tondetti, inducesse una costante espressione allegra.
Il ristorantino cinese dove mi rifugio è pieno di gente, quasi tutti occidentali alle prese con yogurt aromatici e grandi piatti di riso fritto reso saporitissimo dall'uso del burro di bufala, detto ghee, nella frittura. Mi siedo dove trovo posto evitando il piccolo cameriere nepalese che sfreccia qua e là e osservo i miei commensali, uno dei quali indossa un cappello pakistano e abiti locali che portano i segni di un lungo uso. Barba, baffi e qualche collana di grosse perle di corallo e turchese completano il suo aspetto zingaresco, il suo sguardo è sornione e intelligente: sembra che ci sia nato, in questo posto. Viene a sedersi di fronte a me portandosi il bicchiere con il tè. I mesi di viaggio che hanno preceduto il mio arrivo a Kathmandu mi hanno conferito un aspetto che ben si adatta all'ambiente circostante, ma all'amico baffuto non sfugge il nuovo viso pallido.
"Quand'è che sei arrivato? " mi fa come se fosse palese che sono appena sceso dall'aereo.
"Ieri, da Patna. E tu? "
"Ah, io sono appena tornato da Namche Bazar, sotto l'Everest. Pensi di farlo anche tu un trekking sulle montagne? "
Il cameriere nepalese frulla verso di me e se ne va a ordinarmi un riso fritto con piselli e altro. Passa l'ordine attraverso una minuscola finestrella da cui esce una pallida luce. "Mi sa che vado a dare un'occhiata " dico, alzandomi.
"Meglio di no” fa l'amico. "Meglio non investigare troppo da vicino ". Ma ormai mi sono affacciato alla finestrella: quattro o cinque nepalesi, uomini e donne, si muovono veloci sulla terra battuta a gambe piegate, si dice squatting, maneggiando padelle e pentole e piatti e caraffe in una stanzetta dal soffitto bassissimo dove è impossibile stare in piedi: fuochi di brace e sterco di bufalo ardono sotto pentole nere di fuliggine, il fumo è denso e avvolge cuochi e pietanze. È un miracolo che i piatti escano puliti, o quasi, dalla finestrella: quanto a bacilli e batteri, non è il caso di preoccuparsi: sono dappertutto e preoccuparsi non servirebbe a niente.
"Avevi ragione, meglio non vedere " dico all'amico. "Il riso però è squisito ".
Happy Brunette, così si chiama l'esotico personaggio che sta sorbendo il profumato Darjeeling, è in giro da molto tempo. La sua zona prediletta, mi dice, dove per anni ha commerciato raccogliendo oggetti antichi da rivendere in Europa, è altrove, piuttosto lontana, in quella vasta e impervia area di colline e montagne che accomuna fisicamente il Kashmir e il nord del Pakistan, specialmente le aree tribali protette del Chitral e del Ladak. Questa fra l'altro è un po' una fissazione degli occidentali in oriente: visitare tribù, paesi ed enclavi dove pochissimi riescono a entrare, come pure, più a oriente, l'Assam, il Buthan, il Sikkim e altri luoghi che starebbero molto meglio se li lasciassimo in pace. I visti per andarci vengono rilasciati solo a Delhi, sono costosi e durano appena settantadue ore. Meno male, perché la fragilità dei sistemi culturali ed economici di questi posti non potrebbe reggere all'impatto con il nostro dollaro e la nostra curiosità.
"Mi sono fermato qui " racconta Happy "perché mi è nato un figlio. Eravamo convinti di riuscire a tornare in tempo in Italia, ma Lisa non si sentiva bene: abbiamo deciso di fermarci. "
"Ah! " dico "e come campate? C'è modo di guadagnarsi da vivere qui?" Non avevo mai contemplato l'eventualità che ci si potesse sostentare con il proprio lavoro, da queste parti.
"Ti dirò, ce la caviamo piuttosto bene: se hai finito, vieni che ti faccio vedere. "
Passiamo da vicoletti insospettati, portali intagliati e slarghi improvvisi e infine arriviamo in un cortiletto aperto sulla stradina: in mezzo al cortiletto Happy Brunette ha costruito un forno, utilizzando un grosso bidone di metallo segato e risaldato per ottenere una cupola, o meglio un tunnel, che poggia su un ripiano di ferro sotto il quale covano le braci pronte a esser ravvivate in un allegro fuoco. È un vero forno da pizza, e quella di Happy è la prima pizzeria di Kathmandu.
"E la mozzarella? " chiedo.
"Ci stanno dei tedeschi che vendono formaggio qua dietro: lo producono da qualche parte vicino a Jubing, sul trek dell'Everest. Lo sai come sono i tedeschi, mettono fabbriche dappertutto. Però questa del formaggio è una gran bella idea, e anche se non è mozzarella la pizza vien bene lo stesso. "
Entriamo in casa, ci accomodiamo su tappeti e cuscini. Miriadi di oggetti riempiono ogni angolino, casse e ceste, statuette e tankas arrotolati, un vassoio coperto di pietre dure, piccoli lingam, sigilli, argenti… "Be', bisogna pur investire i guadagni " spiega il mio ospite avendo osservato il mio sguardo stupito.
"Spedirò tutta questa roba e poi la rivenderò con calma quando ritorno… Non sono in molti ad avere queste cose, non sono affatto facili da trovare. " Non ho dubbi sul fatto che, una volta arrivate sui mercati italiani, le sue raccolte avranno grande successo. Happy sembra avere il dono di poter comunicare con chiunque e di riuscire a creare all'istante una corrente di simpatia con l'interlocutore. Inoltre possiede la pazienza e l'apparente innocente distacco di ogni buon mercante.
Dalla finestra vediamo una giovanissima coppia entrare nel cortile e sedersi a pazientare su una panca: si avvicina l'ora della pizza. Happy e io usciamo e lui comincia a riavviare il fuoco sotto il forno.
"Se vuoi fare un trekking, " mi dice sogguardandomi mentre alimenta il fuoco "ti conviene avere buone scarpe. "
"Le ho. Me le sono portate dietro. " È vero: mi sono portato delle scarpe belle comode proprio per fare un trekking.
"Noi siamo appena tornati da Pokhara " dice la ragazza in attesa della pizza. "Da lì parte un trekking bellissimo, quello per Jomsom. Ma è molto lungo: qualcuno si ferma alle sorgenti calde…Tatopani, vero? " si è girata verso il suo ragazzo, un bel tipo, che annuisce. "Noi ci siamo fermati un po' lì e poi siamo tornati a Pokhara seguendo un'altra valle. " Guarda di nuovo il suo compagno, che annuisce. Quando muove la testa gli ondeggiano i lunghi capelli castani.
"Senti, " dico io che sono interessatissimo "ma Jomsom è lassù, vicino al Tibet? "
"Sì, è lontano. Dicono che si vedono le guardie rosse… Noi non ci siamo stati. Faceva freddo, abbiamo preferito fermarci a Tatopani. A Tatopani si sta bene. " Si alza per dare un'occhiata al forno e sorride al suo amico. Arrivano le pizze da cuocere, due per gli ospiti e due per noi. Happy le infila nel forno e ogni tanto le rigira.
"Ascolta, e quanto ci vuole da Pokhara a Jomsom? " chiedo. Sono ansioso di notizie, e se questi sono stati fino a metà percorso hanno di certo informazioni interessanti.
"Be', ci vogliono sette, otto giorni per Tatopani; lì ti devi fermare perché è un posto bellissimo, con le sorgenti calde, ci si fermano tutti. Poi mi pare altri tre o quattro per arrivare a Jomsom… Da lì c'è un aeroplanino per tornare indietro, se uno vuole… "
Le pizze sono pronte, i due clienti pagano, prendono le loro e salutano. Pizza da asporto a Kathmandu.
Commenti
Posta un commento