INDIAN TRAIL 21/a Le sorgenti del Gange

 

INDIAN TRAIL 21/a  Le sorgenti del Gange

Sono a Delhi da una settimana, forse più, e provo a contattare la sorella di un Sikh che ho conosciuto in Italia e che mi ha dato sia l'indirizzo della sorella Tara che quello del fratello Davinder.

Tara mi accoglie in giardino, chiede notizie del fratello in Europa, le dico che sta a Vienna e racconto un po' del mio viaggio per via di terra. La casa è una villa con giardino, non esagerata ma chiaramente appartenente a una famiglia benestante. Lei è una Sikh, il marito ovviamente è un Sikh pure lui, al momento assente: questo, considerato che i Sikh tendono a ignorare la separazione in caste degli indù, facilita un pochino la chiacchierata perché occorre ricordare che una delle contraddizioni che si incontrano viaggiando per l'India è che noialtri europei, non portando segni evidenti di appartenenza a una religione o casta o credo, possiamo benissimo essere considerati dei fuori casta. I fuori casta non hanno posto nella struttura sociale indiana, se non nell'infimo ordine dei paria.

Tuttavia, oltre alla apparente tolleranza Sikh, io mi avvantaggio del fatto che parlo un discreto inglese, che uso termini piuttosto colti (da tempo leggo grossi libri in inglese facendo tesoro delle parole inusuali o sconosciute), e che sono ben educato. Gli indiani, Sikh o no, hanno un fiuto speciale per individuare l'appartenenza al gruppo sociale da cui si proviene.

Tara mi offre un ottimo chai al gelsomino, graziosamente posato da una servetta su un tavolino in giardino. Ringrazio educatamente, cosa che lei non si sogna di fare. Anzi: alle mie spalle a circa quindici metri di distanza sta passando un'altra inserviente con una bracciata di lenzuola. All'improvviso quella che fino a un attimo prima era stata una gentile e aggraziata signora indiana dai toni soffici ed educati esplode in una aspra serie di grida dirette alla poveretta stracarica di bucato, che si affretta a scomparire dietro a un gran cespuglio di bouganville amaranto. Poi come nulla fosse successo riappare la dolce Tara che mi versa dell'altro te. Ci rimango un po' male, e in seguito avrò altre occasioni di esser testimone di atteggiamenti arroganti e irrispettosi nei confronti di persone in stato di inferiorità.


In una stanzetta accanto alla mia nella guest house all'old bazar si è piazzato Peer, un belga di Anversa. È un tipo alto, biondo, abbastanza simpatico. È deciso a organizzare un affare che prevede la spedizione di una discreta quantità di hashish, in Europa, dove la può rivendere a caro prezzo. Ha i soldi che gli possono permettere di comperare circa tre chili di merce, ma non ha idea di come trovare la materia prima. Io però conosco Davinder, che ormai ho avuto modo di incontrare un paio di volte e che sembra essere un esperto in materia.

I due si accordano, fanno un piano accurato e io assisto fornendo qualche consiglio: ad esempio spiego loro che per spedire roba sospetta in Europa occorre camuffarla bene, al punto da renderla insospettabile. Bisognerà infilare i malloppi in triple buste di plastica, sigillarli per bene, infilarli in scatole cilindriche di latta come quelle dei pomodori e riempire tutti gli spazi vuoti con burro fuso, in modo da ottenere il giusto peso e un'adeguata consistenza. Poi bisogna trovare una fabbrichetta di conserve che sigilli i coperchi, e infine appiccicare le etichette che avevamo deciso essere Mango Chutney. Il tutto, impacchettato con aggiunta di spezie varie, barattoli di curry, incensi e altre leccornie indiane andrà poi spedito al fratello viennese di Davinder, che essendo un amico non avrebbe tradito i cospiratori. Peer lo avrebbe poi raggiunto e completato il business.

L'unica assistenza che fornisco, a parte la messa a punto del piano, consiste nell'accompagnare Davinder in un sordido filare di retrobotteghe ai piedi della scalinata della Moschea Rossa: un luogo che di giorno è vivace e molto frequentato, ma di notte sembra ed è una trappola puzzolente e pericolosa. Ma è lì che si fanno questo genere di affari, e mentre io gli guardo le spalle Davinder compera un'enorme quantità di hashish. Tutto si svolge velocemente e ce ne andiamo rapidi e invisibili.

Il piano è pronto, rimangono da realizzare le parti pratiche e poi la spedizione. Io non ho tempo né voglia di condividere quella parte di lavoro, preferisco continuare il mio viaggio. Se mai pensassero che qualcosa mi sia dovuto, me lo faranno sapere.

Delhi è impressionante, immensa, complessa e forse varrebbe la pena di starci a lungo: io però dopo una decina di giorni e dopo aver assorbito grandi quantità di confusione cittadina decido di andarmene a nord, verso le grandi montagne dove nasce il sacro Gange. Barullo per duecento chilometri - cinque ore - in un allegro autocarro dipinto di azzurro e dotato di numerosi clacson dai suoni variegati che sembrano essere sempre in funzione. A Hardwar mi trasferisco sul retro di una motocicletta di antica fattura, guidata a velocità impressionante da un Sikh dal turbante violetto. Tutti guidano come se avessero il fuoco alle calcagna, da queste parti. Sto aggrappato ai fianchi muscolosi del pilota ed evito di bruciarmi una gamba sulla marmitta rovente. Sono solo una ventina di chilometri, ma la strada è tutta curve e accuratamente dissestata e l'amico evita buche e ostacoli con guizzi improvvisi e frenatine a sorpresa.

La mia meta è Rishikesh, cittadina sacra che sorge ai piedi dell'Himalaya e ospita numerosi ashram e luoghi di meditazione, oltre a molti piccoli accampamenti di cilestrini sadhu in gruppetti di tre o quattro, dediti alla contemplazione e al chillum.

Rishikesh è la prima cittadina a sorgere sul Gange, situata proprio dove il sacro fiume, uscito delle montagne eterne, si affaccia impetuoso verso la grande vallata più a sud. Il fiume è verde smeraldo, velocissimo e possente, già largo una trentina di metri da sponda a sponda. Chi si immerge nelle acque del Gange alla sua origine viene mondato da ogni peccato.

Come bandiera al vento il mio corpo fluttua spinto e tirato dall'immensa corrente. Tutti i miei peccati, tutte le mie imperfezioni e maculazioni vengono lavate dalla inaspettata impetuosità di quell'acqua, da millenni amata e benedetta. Le mie mani sono aggrappate con la forza della disperazione a una radice, se mollo chissà dove arrivo. Magari mi ritrovo sotto il ponte di Howrath, a Calcutta, svariate migliaia di chilometri più a valle.

Prima di tuffarmi nelle verdi acque ho chiesto al sadhu coperto di cenere azzurra: "Ma ci sono coccodrilli nel Gange? " Mi ha guardato come si guarda un povero deficiente: "Ti pare che ci possano essere coccodrilli nella sacra Ganga?". Immagino abbia ragione, e comunque i coccodrilli sono ormai il mio ultimo pensiero, perché l'acqua scende dalle montagne dell'Himalaya come un proiettile, e per piccolo che sia qui alle sue origini, il fiume come dicevo è largo circa trenta metri, e profondo almeno dieci. La corrente vuole a tutti i costi portarmi via e mi sbatacchia qua e là . Il sadhu se la ride fumando il chillum di ganja, che gliene frega a lui se io finisco nel Mar dei Sargassi.

Tornato a riva, le cose cambiano. Il sadhu mi offre il chillum, penso come riconoscimento del mio nuovo stato di grazia. Poi, essendo mondato da ogni schifezza umana, posso alfine osservare il mondo, o meglio la sua rappresentazione, con occhio saggio ed equilibrato. E infine posso riposare le stanche membra, allentare la presa delle mani contratte e pensare alla cena.

La cena mi aspetta in un ristorante guardato alla porta da una figura surreale, un uomo completamente ignudo e verniciato di rosa shocking. Devo dire, sia pure dalla distaccata indifferenza con cui ormai sto cominciando a osservare l'universo mondo, anzi la sua rappresentazione, che sono piuttosto colpito. Spero che non sia lui il cuoco. Ma, dopo tutto, che importa? Sono a Rishikesh: alle sorgenti della grande madre Gange! Mi sono bagnato nelle sue acque, sono ritornato puro e pulito come un agnellino. Nulla mi può far male.

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