INDIAN TRAIL 16/a: Pakistan.
INDIAN TRAIL 16/a: Pakistan.
Il confine dalla parte del Pakistan è ben diverso da quello afghano: qui si vede subito che i soldati e i doganieri si prendono assai sul serio, sono ben armati ed equipaggiati, tutti in uniforme e tutti dotati di turbanti identici.
Il mio bagaglietto, che consiste di un piccolo zaino di sbiadita tela verde contenente qualche cambio di biancheria, un paio di jeans, i pastelli colorati, il quaderno di viaggio e un libro con i sutra del Buddha, oltre a un paio di scarpe che mi serviranno per i trekking che medito di intraprendere in seguito, viene ispezionato minutamente senza suscitare scandali: solo un quadrato di plastica psichedelica cangiante incollato sul quaderno è oggetto di grande curiosità, e le guardie se lo passano sorprese e molto colpite dalla magia dei colori che cambiano a seconda della luce.
Passaporto e visto a posto, avverto un'urgenza nel levarmi di torno e allontanarmi. Anche le guardie sollecitano: Go, go, proseguire rapido verso lo sgangherato pullman che aspetta di portare me e gli altri viaggiatori fino a Peshawar.
Peshawar è una delle più antiche città dell'Asia meridionale, capoluogo dalla cui amministarzione dipendono le aree tribali più a nord, ed è trafficatissima da secoli essendo strategicamente situata in una grande valle che da sempre ha permesso il transito delle carovane fra l'Asia Occidentale, l'Asia Centrale e il subcontinente indiano. Fu uno dei centri dove, per quasi mille anni, cioè dalla conquista di Alessandro nel quarto secolo a.C. fino al settimo d.C. quando avvenne la conquista Islamica, si realizzò uno dei più interessanti fenomeni di sincretismo artistico-culturale-religioso fra l'ellenismo classico e il buddismo. Ma fu l'Afghanistan il vero centro da cui si irradiò la cultura Greco-Bactriana, che via via pervase il subcontinente Indiano, e dove a Bamyan sorsero le immense statue del Buddha, forse il più grande esempio di fusione ellenistico-buddhista.
A Peshawar le automobili sono rare, ma le Api della Piaggio sono innumerevoli e svolgono tutti i servizi immaginabili, sempre a rotta di collo. Coloratissime, luccicanti, verdi rosse e gialle sfrecciano portando persone e masserizie senza sosta svicolando negli stretti passaggi dei bazar, dove ogni merce è in bella vista, soprattutto le infinite varietà di cibi che vengono cotti lì per lì in grosse padellone, pastelle fritte, spiedini arrostiti in grandi fiammate, pani e focacce appiattite a mano e cotte su piastre roventi. Tutti codesti cuochi stanno tutto il giorno a gambe incrociate e lavorano seduti allungando le braccia ad acchiappare i vari ingredienti. Sono abilissimi, a spesso accanto hanno un aiutante che scaccia le mosche agitando uno straccio. I negozi si susseguono senza soluzione di continuità: dozzine di sacchi di juta aperti pieni di mandorle, noci, nocciole, decine di varietà di legumi, piramidi di fragole, vassoi di albicocche secche, fichi, melagrane… È un paradiso di abbondanza. Ogni tanto si apre un negozio di orefice che dispiega collane e bracciali e cavigliere e diademi scintillanti, una vera grotta di Ali Babà.
Le case presentano facciate con balconi e verande decorati da intagli e merletti di legno dipinto ed eleganti finestre ad arco, e si ergono per qualche piano al di sopra del brulichìo sottostante, dove carretti di ogni genere scorrazzano dappertutto e bandiere sventolano appese a festoni da casa a casa. Qualche raro enorme cartellone pubblicizza i film che immagino siano fra i primi esemplari prodotti sotto l'influenza stilistica della nascente Bollywood, a Bombay: pose eroiche, casti baci con dame dai lunghi abiti, pochi centimetri di pelle nuda in vista. Qui siamo nel pieno del mondo mussulmano.
Da Peshawar, ben rifornito di frutta secca e mandorle, prendo un treno verso Rawalpindi per poi raggiungere Lahore. Sono circa cinquecento chilometri fino a Lahore. Lo snodo ferroviario è importante anche perché Rawalpindi è vicinissima a Islamabad, la nuova capitale appena fondata che ha sostituito Karachi, l'antica capitale che si affaccia sul Mare Arabico.
Nello scompartimento oltre a me e a un paio di pakistani ci sono due ragazzi inglesi, biondi e barbuti. Io sono barbuto, ma non biondo, e me ne sto tranquillo al mio posto, vicino alla porta. Gli inglesi vogliono del tè, aprono il finestrino che si affaccia sul marciapiede del binario e cominciano a gesticolare per attirare l'attenzione di uno dei venditori che fra la folla spingono i loro carretti con bevande e viveri di conforto. Riescono però ad attirare anche l'attenzione di un nutrito gruppetto di ragazzotti locali che si avvicinano al finestrino, si inerpicano fino a raggiungerne l'apertura e cominciano a gridare all'indirizzo degli inglesi, lanciando mozziconi accesi di sigarette e bidi e altra immondizia all'interno dello scompartimento cercando di colpire i due biondi. Li odiano. Li minacciano con pugni chiusi e se riuscissero a entrare probabilmente li picchierebbero. Arrivano due poliziotti, menano un po' di fendenti con bastoni di bambù e disperdono il nemico che se ne va inveendo.
Io sono stato ignorato: indosso il tipico copricapo afghano di panno beige, ho una barbetta caprina, sono bianco ma non lattiginoso. Qualcuno comincia persino a rispettare il mio aspetto di viandante pellegrino: vedono che non sono proprio il solito hippy trasandato, che mi esprimo con una certa proprietà, e che sembro, e in effetti sono, un inoffensivo ricercatore. Non ci sono buchi nelle mie braccia, né droghe nei miei bagagli: a volte riesco persino a lavarmi. Insomma, un onesto apprendista sufi.
Commenti
Posta un commento