INDIAN TRAIL 9/a: Verso Erzurum.

 INDIAN TRAIL 9/a: Verso Erzurum.

La piazza centrale di Ankara è dominata da una colossale statua di Ataturk, considerato un eroe nazionale.
Mustafa Kemal Ataturk fu presidente della Turchia dal 1923 al 1938, vale a dire che, dopo aver servito come generale dell'esercito turco fino alla prima guerra mondiale e poi nella guerra di indipendenza, fu il primo presidente dell'appena istituita Repubblica Turca, dopo la fine dell'impero Ottomano.
Ataturk fu una figura carismatica, in grado di mantenere unito il suo grande paese in un periodo di transizione molto complesso, e ben seppe interpretare lo spirito turco nella sua nuova e faticosamente parziale trasformazione verso una vocazione repubblicana: non va dimenticato che l'impero ottomano, cioè turco, era durato quasi sei secoli, dal 1299 al 1922, dominando quasi tutta l’Europa sud-orientale fino alla periferia di Vienna e tutto il Nord Africa. Questo immenso potere tende a lasciare strascichi nei successori… Nel 1923 la capitale venne trasferita per motivi di sicurezza e centralità da Istanbul (Costantinopoli) ad Ankara.
E qui, ad Ankara, in piazza Ataturk, Manuela e Marco e io ci salutiamo: loro proseguiranno con la fatiscente due cavalli mentre io entro nella stazione dei treni, compero un po' di quell'ottimo pane che viene sfornato parecchie volte al giorno dai numerosi forni, trovo un negozietto dove prendere la mia abituale scorta di carote, cipolle e pistacchi. Compero il biglietto per Erzurum, che scopro distare più di novecento chilometri.
Fischio, sbuffi di vapore, sferragliare metallico… si parte. Sedili di legno levigato, lucidi e durissimi.
Il vecchietto che occupa il sedile di fronte a me mi sogguarda continuamente. Devo essere per lui una sorpresa e una novità, come d'altro canto lo è lui per me. Ha baffi grigi spioventi e barbetta caprina, i capelli trattenuti in una sorta di turbante cilestrino, abiti sciolti ed è circondato da svariati pacchi e pacchetti distribuiti sulla panca che lo ospita. Dal finestrino si vede sfilare un panorama soffuso di ocra e marrone, pochissime le case lontane e rare le zone boschive. Il treno barulla verso est, alle nostre spalle il tramonto comincia a infuocare il cielo. Poi cambiamo direzione, si va verso sud, verso un posto chiamato Kayseri: immagino che le montagne che si dovrebbero attraversare andando diritti a est siano troppo impegnative per una linea ferroviaria, e che la valle in cui entriamo sia più accogliente e meno ostica. Estraggo il quaderno di viaggio e studio il percorso. L’omino osserva. Si avvicina la notte e il tramonto adesso è ben visibile, glorioso e multicolore in un cielo immenso e screziato da qualche nuvoletta rosa.
Estraggo un paio di carote, ne offro una al collega viaggiatore, nello scompartimento ci siamo solo noi due, ma lui rifiuta con un grazioso gesto della mano ruvida. A sua volta tira fuori dei pacchettini di foglie legati con qualche fibra vegetale. Non voglio curiosare, mi impegno con la mia carota, ma vedo che si tratta di involtini di riso. Beato lui. È quasi buio, voglio approfittare degli ultimi barlumi per scrivere qualcosa sul quaderno di viaggio, quello dove prendo appunti, annoto indirizzi di gente che incontro, sottolineo nomi di alberghetti e guest house... È sempre opportuno fare tesoro delle informazioni che si raccolgono ascoltando i racconti di chi è già passato dove dovrò passare io. Appena tiro fuori la penna, una semplice penna a sfera, il collega che fino a quel momento era rimasto impassibile e imperscrutabile si rianima e si accende vispissimo. Vuole la penna a tutti i costi. Me lo fa capire a gesti e anche parlando, ma io non capisco nulla di quel che dice: tuttavia è chiaro che non intende mollarmi finché non cedo e gliela dò. Ne possiedo solo un'altra, e una matita, e a dire il vero mi fa un po' fatica separarmi dalla mia Bic: ma penso sia di buon augurio cedere, e far felice il vecchietto. In effetti è felicissimo, vuole darmi qualcosa in cambio. Alla fine mi dà un paio dei suoi pacchetti di riso, peraltro deliziosi, suggellando un'amicizia senza futuro, visto che di lì a poco lui e i suoi pacchetti, arrivati a Kayseri, scendono e si dileguano.
Durante la sosta sporgendomi dal finestrino sono riuscito a procurarmi un po' di involtini di foglie da un venditore che percorre la pensilina, vedremo cosa contengono, e una tazza, da me fornita, di tè zuccherato. Cosa posso volere di più? Dovrò starmene sul sedile di legno per altri seicento chilometri, cioè per tutta la notte. Per fortuna nessuno viene a turbare la mia sobbalzante pace, posso stendere il sacco a pelo, sistemare lo zainetto a mo' di cuscino e, dopo una lauta cenetta, prepararmi per la notte.
Mi sveglio, fa freddo, molto freddo. Siamo nel bel mezzo di montagne innevate e la valle in cui avanza il treno è coperta di neve. Esco intirizzito dal sacco a pelo, non so dove siamo, ma Erzurum non può essere troppo lontana. Dal fondo dello zainetto pesco un paio di scarpe che mi sono portato in previsione di qualche trekking, sono delle pedule robuste certamente più calde dei sandali che indosso di solito, c'è anche un maglioncino, leggero ma di lana, che fornirà un altro straterello difensivo sotto la giacchetta di tela azzurra piena di tasche che costituisce il mio abbigliamento abituale: sobrio eppur elegante, con qualche tasca segreta da me cucita all’interno.
Erzurum sorge fra le montagne dell'Anatolia orientale, a un'altitudine di 1750 metri ed è il capoluogo di una vasta regione, l'Armenia. È un insediamento greco-persiano molto antico: i Romani la chiamarono Arzen, dal persiano Arz-e-Rum che significava "il valore dei Romani ". Da qui il nome moderno. È una grande città con più di trecentomila abitanti, oggi sede di un'importante centro di ricerca medica. Ma all'epoca del mio passaggio io ignoro questi dettagli e penso solo a ombattere il gran freddo bevendo numerosi tè caldi, mangiando pane appena sfornato e galoppando verso l'ufficio governativo che rilascia i visti per la Persia.
La corriera che mi deve portare oltre il confine parte la mattina all'alba. Ci saranno molte ore di scuotimenti, e un bel tratto di strada sarà in salita, fin verso il confine con la Persia. La meta per oggi è Tabriz, e c'è il confine turco-persiano da superare. La distanza da coprire è di circa seicentocinquanta chilometri, fra montagne e valli traversate da una strada non proprio impeccabile, stretta e non sempre asfaltata. Il paesaggio rimane innevato fino al confine, il traffico è scarso: i rari camion che incrociamo hanno il frontale corredato da innumerevoli luci e lucine, abbellimenti che decoreranno quasi tutti i mezzi da qui in avanti. Sono allegri e del tutto spregiudicati nella guida. La corriera è piena, per la maggior parte si tratta di locali e io mi sono piazzato su uno degli ultimi sedili. Davanti a me sobbalzano numerosi turbanti e piccoli copricapi visto che avere il capo coperto è quasi obbligatorio da queste parti. Anch'io mi sono procurato un berretto, sia per il freddo che per essere meno visibile, anche se è impossibile evitare la curiosità degli altri viaggiatori, che si girano continuamente per darmi occhiate scrutatrici. Sono uno dei rari occidentali in transito, e l'unico in questa corriera.
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Piero Angori
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