INDIAN TRAIL 14/a: Kandahar, Kabul.
INDIAN TRAIL 14/a: Kandahar, Kabul.
Due giorni a Kandahar per riposare le ossa messe a dura prova dall'autocarro di Herat, e poi eccomi su un altro autocarro diretto a Kabul. Noccioline, carote, melagrane, focaccia appena sfornata e sono pronto. Il tè lo troveremo lungo la strada. Ci sono circa cinquecento chilometri da percorrere. Deserto di pietre e polvere.
L'allegro tintinnio delle campanelle di Kandahar è sostituito dal rombo del diesel che sbuffando e scuotendosi mi trasporta attraverso il pietroso panorama che sembrerebbe ostico a qualsiasi tipo di vegetazione, ma che ciò nonostante è in grado di rifornire i negozietti e i paesini di splendidi meloni, melagrane, inaspettata uva e albicocche… Si procede lentamente, ci vogliono dodici, tredici ore di sussulti e scossoni prima di vedere da lontano la capitale: Kabul.
Kabul ha una storia lunghissima e complicata: per migliaia di anni è stata crocevia di carovane, eserciti, esploratori e giramondo. È lo snodo da cui si può andare verso nord, verso cioè la Russia via Mazar-i-Sharif, o verso est, ovvero Pakistan e India. A nord-est l'Afghanistan si estende con una lingua di territorio fino a toccare quel groviglio di confini malvolentieri condiviso da Russia, Cina, India, Pakistan e appunto Afghanistan: è la catena dell'Hindu-Kush che si addentra nei territori del Chitral, del Kashmir del nord, nelle zone proibite abitate dagli Hunza alle pendici del Piccolo Pamir e nei territori tribali del Gilgit, dove le catene montuose si innestano nel Karakorum e poi nell'Himalaya, passando per il K2, 8.600 metri di altitudine: la seconda vetta più alta del pianeta. La prima ascensione che raggiunse la vetta fu compiuta nel luglio del 1954 dagli italiani Lacedelli e Compagnoni. All'epoca fece parte della spedizione anche Antonio Marussi, scienziato e geologo triestino, amico di mio padre, che ebbi occasione di incontrare a Trieste e di cui avevo ammirato la collezione di rare bottiglie, accuratamente stipate fra gli scaffali di libri e mappe nella sua casa di Via Giulia.
Viaggio con una ragazza francese dai capelli rossi, Lauren, molto carina: è salita sull'autocarro in qualche punto fra Kandahar e Kabul e ho condiviso con lei qualche melagrana, mostrandole come massaggiarla per spremerne il succo per poi addentarla. C’è qualcosa di sensuale nella procedura, una lieve intima suggestione: la cosa la diverte, e per quanto l'inglese di entrambi non sia proprio evoluto e il mio francese si riduca a una fatiscente memoria di studi lontani, diventiamo amici.
L'alberghetto dove decidiamo di fermarci è uno dei tanti frequentati da occidentali in transito, una fauna i cui singoli individui tendono ormai a confondersi in una variopinta panoplia di visi e abiti, lunghi capelli e anelli e collane. Sicuramente tutta gente per bene, ma un po' di precauzioni vanno prese: passaporto e altri piccoli averi ben avvolti intorno alla vita, meglio evitare di condividere bicchieri e tazze e comunque aver cura di bere solo tè. È doveroso lasciar perdere i vari business che vengono proposti, in genere l'acquisto di hashish proveniente da Mazar-i-Sharif, notoriamente il migliore di tutta l'area, o di ganja, cioè una fortissima marijuana che si sarebbe potuta rivendere in India, possibilmente a Goa, decuplicandone il prezzo. Occorre anche declinare gli inviti a comperare traveller cheques, sicuramente rubati a qualche malcapitato, o a vendere i propri dichiarandone poi il furto e ottenendone la sostituzione dall'American Express… Mille piccoli sotterfugi ed espedienti, non ultima la vendita del passaporto sperando in un rimpatrio aereo pagato dalle rispettive ambasciate.
Molti, troppi viandanti si sono arenati in qualche miserrima stanzetta di una qualsiasi guest-house, dove consumano tutte le droghe che riescono ad accaparrarsi con piccoli traffici e furtarelli. Hanno un continuo bisogno di soldi e sono molto più insistenti e fastidiosi, e pericolosi, dei gruppetti di ragazzini locali che sia pure onnipresenti si accontentano di baksheesh, cioè offerte, minime: regaletti di monetine o piccoli gadgets europei.
Lauren, la francese con cui ho il piacere di condividere una stanzetta della Guest House, è molto attraente e i suoi capelli rossi attirano subito l'attenzione del proprietario. L'amico afghano si è hippizzato, influenzato dalla continua presenza di occidentali più o meno sballati da cui ha mutuato un uso costante di hashish e il modo di vestire, ostentando una multicolore fascia sulla fronte e bracciali e casacca larga e sciolta a mostrare il petto villoso. Si avvicina al tavolino dove stiamo sorseggiando un dolce e squisito tè.
"Hey - mi fa - me la venderesti? "
Questa non me l'aspettavo. "Ma, dico, non è mica mia! "
"Solo per una notte, mica per sempre! " Lo sguardo è annebbiato, e a lui la proposta sembra la cosa più naturale del mondo.
"Ma va là, la conosco appena e poi ti dico, non è mia ". Non è il caso di adombrarsi o di scandalizzarsi. Paese che vai, usanze che trovi.
L'amico non si offende e non insiste. Immagino che ci provi spesso, e magari qualche volta gli va pure bene.
Lauren dai rossi capelli e io ci separiamo dopo qualche giorno: lei è decisa a fermarsi a Kabul per un po' per andare a esplorare la valle di Bamian nel Bandiamir, a ovest: è il luogo dove sorgono le immense statue del Buddha scavate nella roccia, una cosa impressionante a sentire quelli che le hanno visitate. Io però voglio proseguire. Bacio. Sei bellissima. Ci vediamo sulla strada, forse ci incontriamo in un altro crocevia del grande mondo.
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