INDIAN TRAIL 13/a: Afghanistan.
INDIAN TRAIL 13/a: Afghanistan.
L'Afghanistan, per noialtri viandanti, è una specie di miraggio, un’oasi nel deserto. È come se non appartenesse del tutto alla teoria di paesi che si attraversano, ed è da tutti considerato un luogo sereno dove finalmente è possibile rilassarsi per un po' dopo aver attraversato un subcontinente che nel suo insieme è piuttosto faticoso. Mi sembra che l'occidentale in transito fino a questo punto sia considerato una specie di fastidio, un intruso che suscita un po’ di curiosità. Poco importa che ci si sforzi di adeguarsi a ogni norma e si eviti ogni attrito: si rimane estranei, e la sensazione è che prima ce ne andiamo, meglio è.
Ma l'Afghanistan non è così. A Herat, appena si smonta dalla corriera che ha percorso i trecento chilometri da Mashhad, ecco avvicinarsi il gruppetto di accoglienza, una decina di individui con turbante e vestiti di casacche e braghe belle larghe color marrone, o grigio, o azzurro carta da zucchero, vetuste e impolverate. Sorridono tutti e chiacchierano fra loro, hanno un'aria allegra e benevola. Un paio di loro hanno dei fucili, devono essere le guardie di confine: l’abbigliamento però è uguale a quello di tutti gli altri, e l'atteggiamento pure. Un ragazzotto mi si avvicina e mi offre un panetto ovale, dalla forma che si ottiene comprimendo qualcosa fra i palmi delle mani: hashish, naturalmente. L'Afghanistan ne è il più grande produttore dell'area, sia come quantità che come qualità.
Ringrazio e rifiuto, è troppo presto: devo appena cominciare a capire dove mi trovo e ad assorbire la nuova atmosfera. Il ragazzo stacca un pezzetto dal panetto e me lo mette in mano. "Baksheesh " mi dice sorridente. Regalo. L'avesse fatto in Persia lo avrebbero arrestato all'istante. È qui a Herat che qualche anno più tardi, nel 1977, fu scattata la foto del soldato afghano con fucile a tracolla e nella canna del fucile una rosa rossa.
È un paese ricco, anche se sembra povero: è un luogo tranquillo, rilassato, gentile. Le bancarelle e i negozietti sulla strada principale sono pieni di bellissima frutta, sia fresca che secca, e ci sono meloni mai visti e di ogni colore, angurie, persino uva e manghi e papaye. La frutta secca in piramidi viene regolarmente carezzata dal ventaglio di piume del venditore, per allontanare le mosche. Albicocche, pesche, mele e qualche varietà di frutta a me sconosciuta. Pistacchi, anacardi… La gioia del viaggiatore.
I sarti lavorano sulla via, accovacciati o seduti su minuscoli sgabelli, azionando con i piedi per tutto il giorno le macchine da cucire e chiacchierando con i vicini. Mi faccio cucire un paio di pantaloni color rosa antico, da una stoffa comperata lì accanto, e riesco a farmi cucire una piccola tasca segreta in fondo a una gamba, all'interno, dove infilo un po' di dollari, per sicurezza. Il sarto mi guarda con approvazione. Documenti e altri averi preziosi sono avvolti più volte al centro di una stoffa turchese che poi arrotolo a salamino e mi annodo in vita: sistema che adotterò sempre da lì in poi.
Il riso è un basmati buonissimo, le salse squisite e gli arrosticini di montone sono deliziosi. Il tè è alla menta. Il cielo notturno è sfolgorante di stelle, non c'è nulla a intristire l'aria. Siamo a novecento metri sul livello del mare, fa fresco, decido di infilarmi rapidamente fra le ruvide coperte sul letto di corde, fino al prossimo giorno.
Cara Herat, dalle umili case colore della terra del deserto e delle montagne, piccoli grumi di umana fattura essenziale che si stendono lungo la strada polverosa e ospitano gente dal cuore ospitale e sorridente. Dolce Herat, ti rivedrò al mio ritorno e uno dei tuoi sarti mi cucirà un nuovo paio di pantaloni, ma sarà l'ultima volta. Bombardamenti spietati e raffiche di diabolica provenienza aliena ti raderanno al suolo, restituendo le tue rovine al deserto da cui eri sorta migliaia di anni fa.
C'è una città dal nome magico all'orizzonte: Kandahar. Per arrivarci occorre adattarsi ad affrontare una traversata di deserto roccioso per quasi settecento chilometri, seduti su una dura panca di legno nel retro di un traballante autocarro privo di ammortizzatori, giusto due balestre, guidato da un allegro e spensierato giovane afghano palesemente su di giri. L'amico aziona il clacson con grande entusiasmo ogni volta che, da almeno un chilometro di distanza, intravvede un confratello venirgli incontro alla guida di un altro camion pieno di luci colorate, che a sua volta inonda il deserto di esagerati squilli di trombe. Sono capacissimi, i due piloti, di fermarsi per un quarto d'ora a scambiarsi notizie e battute dai finestrini, ignorando i passeggeri che stanno cuocendo sotto il sole, visto che entrambi i mezzi sono privi di copertura. Ma che importa? È vero che il sedile è duro e il caldo spietato, ma io mi sono procurato delle meravigliose melagrane che manipolo massaggiandole a lungo onde separarne internamente il succo dai semini, per poi dargli un morsetto aprendo un buchino nella scorza da cui bevo il nettare, spremendo via via il frutto la cui buccia resiste benissimo senza rompersi: è un piccolo otre portatile pieno di dolce delizia.
La pista sembra interminabile, i villaggetti sono gruppetti di case che sembrano famigliole di funghetti, bimbetti e animali vari ci guardano passare, le soste sono rare: ci vogliono quattordici ore e svariate melagrane per intravvedere Kandahar la bella, soffusa di luce e di mistero.
Kandahar profuma di pulito, l'aria è tersa e cristallina: i ristorantini sono quasi sempre separati dalla strada da semplici tende e ne escono solleticanti odori di cibi speziati e fragranti e tintinnii di bicchieri, perché qui il tè si beve nel vetro. Strade e stradine sono percorse incessantemente da carrozzelle trainate da cavallini al passo, e alle grandi ruote sono applicate suonerie come quelle delle nostre antiche biciclette, quelle che si azionano con il pollice: ma queste sono molto più grandi e il girare stesso delle ruote le fa tintinnare senza sosta riempiendo l'aria di un costante e variegato allegro trillìo
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