INDIAN TRAIL 11/a: Tabriz, Teheran, Mashhad.

 INDIAN TRAIL 11/a: Tabriz, Teheran, Mashhad.

Devo dire, sia pur rendendomi conto di stare troppo generalizzando, che i Persiani, oggi Iraniani, non sembrano amare molto noialtri occidentali: almeno, questa è la mia percezione. Può darsi che le antiche guerre, che i transiti spietati e conquistatori di secoli ormai scomparsi abbiano determinato una memoria epigeneticamente insediatasi nei cromosomi di queste genti. In fondo gli Europei sconfissero e umiliarono un impero che si riteneva divino e imbattibile, infrangendo il sogno secolare di una civiltà immensa e meravigliosa.
Pur non essendo dotato di corazza e schinieri la cui vista potrebbe rivivificare le antiche offese, sono fatto tuttavia segno della curiosità un po' ossessiva e per nulla benevola dei viaggiatori che occupano praticamente tutti i sedili della corriera, e che viaggiano con le teste girate verso di me, che occupo l'ultimo sedile in fondo, e mi scrutano con sopracciglia corrugate e baffoni spioventi. Io mi vergogno un pochino perché ogni tanto sgranocchio un po' di carote e qualche pistacchio, sotto stretta osservazione. Spero di non star infrangendo qualche tabù. Ho la sensazione che anche da queste parti la mia rada barba caprina - mai stato un tipo peloso - e il berretto che mi copre la folta capigliatura in qualche modo mi proteggano: in seguito, quando la barba sarà ulteriormente cresciuta e il berretto sarà sostituito dal tipico copricapo afghano, mi chiameranno "sufi", quasi con rispetto. Per il momento però, arrivato a Teheran dopo un viaggio interminabile mi avvicino all'alberghetto indicatomi non ricordo più da chi, e la prima cosa che noto è che il padrone della locanda, che mi ha visto arrivare fin da lontano, lungi dal mostrare rispetto si affretta a cambiare il cartello del prezzo sulla vetrina: erano venti rials, adesso sono magicamente diventati trenta. Il prezzo è sempre modestissimo, ma si vede che non sono ancora stato promosso sufi a pieno titolo. Barba ancora troppo corta, temo.
Teheran è una grande città. Il centro pulsante ha un’aria molto occidentale, grandi palazzi che sembrano più europei che orientali, le Poste, gli uffici governativi… Una grande piazza convulsamente trafficata da taxi e privati che strombazzano i clacson senza requie, autobus e corriere in perenne rincorsa. Quando esco dal mio rifugio mi dileguo nel labirinto di vicoli che si avviluppa subito dietro i palazzoni, quasi si fosse in uno di quei set cinematografici dove le facciate monumentali celano una realtà insopprimibile e ben più antica e genuina: verace, ma imbarazzante per chi vuol sembrare ben avviato sulla via della modernità.
Avendo ignorato sia pure a malincuore siti importanti come Isfahan, Shiraz, Persepoli, mi sento giustificato nell’essere assai veloce nella mia sosta a Teheran. Ci vivono più di dieci milioni di abitanti, e naturalmente essendo capitale di un territorio immenso e antichissimo, culla di civiltà sofisticate e millenarie, ospita musei e moschee, giardini fantastici e memorie di tempi ormai lontani e quasi dimenticati. Ma bisogna fare un notevole sforzo di immaginazione per far rivivere le ombre di quelle epoche remote, cercando di estrapolarle dal caos attuale. Forse è per questo che mi addentro più volentieri nei meandri dei bazaar, dove la vita sembra pulsare ancora con ritmi ancestrali, e dove gli artigiani, i vasai, i fabbri e i sarti ancora operano sulla strada, sulle soglie delle loro miserrime bottegucce. È qui che si può lasciarsi inebriare dal profumo diffuso dai forni del pane che senza sosta sfornano deliziose focacce croccanti, e ammirare la precisione delle piramidi di polveri di spezie colorate, curcuma, zenzero, peperoncino…
Con il mio involtino di viveri da viaggio prendo posto nel retro della corriera che mi porterà verso est, a Mashhad, che si trova a circa novecento chilometri da Teheran. Le distanze da queste parti sono molto grandi, e le proporzioni si percepiscono ancora più vaste a causa delle condizioni delle strade, dei panorami semidesertici ed eternamente montagnosi e della rarefazione dei centri abitati. Poco più a nord - poco si fa per dire - al di là della corona di monti che protegge Teheran c'è il Mar Caspio, che a sua volta è un po' più grande dell'Italia. L'Iran stesso, che sto attraversando da una parte all'altra, è cinque volte più grande dell'Italia. Dico questo per dare, anche a me stesso, un'idea delle misure.
Più si procede verso oriente e più ci si immerge in territori profondamente islamici. I viandanti sono abbastanza numerosi ma le sconfinate distese desertiche attraversate da strade e piste che, con ben pochi ammendamenti, percorrono gli antichi tracciati della Via della Seta, li separano e li spicciolano così che in genere ci si ritrova a viaggiare da soli.
Gli occidentali che vanno e vengono su queste piste, quelli cioè che hanno scelto di andare per via di terra invece di abbordare un aereo, appartengono a una specie un po' particolare. Il loro aspetto varia moltissimo, a seconda della durata della loro permanenza sulla strada. Sono accomunati dalle mille esperienze, dalle difficoltà superate, e nei loro sguardi si possono intravvedere entusiasmo, stanchezza, disillusione, speranza. Ognuno sa bene che ogni casuale incontro sarà temporaneo ed effimero, persino gli eventuali abbracci d'amore sono esili e transitori. D'altro canto, cos'è che non sia transitorio in questa vita? Alcune e alcuni di noi cercano le proprie radici, i propri fondamenti all'interno della società in cui sono nati e cresciuti: ma non è detto che funzioni, o almeno che funzioni per tutte, e per tutti. C'è un prezzo da pagare per fruire dell'apparente sicurezza proposta dal contesto in cui si nasce. Non che cambiare contesto sia gratuito, intendiamoci bene, e non è certo garantito che il nuovo contesto sia migliore del precedente. Sarà tuttavia diverso, e dunque fonte di nuove esperienze. Chi è sulla strada di solito appartiene a quella categoria di persone che ha sentito il bisogno di rivedere le proprie coordinate, e si è resa responsabile, consapevole o meno, di un profondo cambiamento. Ne conseguono rischi, rinunce, e di solito anche la disapprovazione sociale. Ma, dico io, che importa? Lo spirito è libero, e lasciare che compia il suo volo è un compito sacro.
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