INDIAN TRAIL 10/a: Persia.
INDIAN TRAIL 10/a: Persia.
Il confine è presidiato, dalla parte turca, da guardie che non hanno una gran voglia di controllare alcunché. Timbrano il passaporto, mi guardano appena e mi fanno cenno di risalire sulla corriera, che si ferma una cinquantina di metri più in là, al confine persiano. Qui sono molto più attenti, ispezionano i bagagli di tutti i passeggeri e io vengo fatto entrare in una stanzetta dominata dal ritratto del loro Shah, Reza Pahlavi. Il suo sguardo corrusco dalle folte e severe sopracciglia sembra tener d'occhio ogni attività. Il mio passaporto viene osservato, rigirato e passato di mano da due serissimi ispettori, e il sacco a pelo viene srotolato e palpeggiato. Anche il quaderno di viaggio è oggetto di curiosità, soprattutto una piccola decorazione cangiante incollata sulla copertina, che a seconda di come viene guardata ha un colore e una profondità diverse. Quel quadratino di plastica riesce a strappare un sorriso sotto i baffoni delle guardie, mentre Reza Pahlavi rimane impassibile.
Esiste un modesto traffico di hashish fra la Turchia e la Persia, modesto perché l'hashish turco è piuttosto scadente e anche, e soprattutto, perché chi ne viene trovato in possesso sia pure in quantità minime, corre rischi gravissimi. L'arresto è sicuro e immediato, e le grane che ne conseguono vanno avanti all'infinito. Tutti quelli che percorrono la strada per l'India sono al corrente di questo fatto, e se qualcuno si è portato appresso un po' di materiale compromettente fa bene a sbarazzarsene prima del confine.
Quanto a me, l'unica cosa imbarazzante che mi porto appresso è un paio di mutande che si stanno asciugando in cima al mio sacco da spalla. Mi sembra passato un secolo da quando partecipavo alle feste dei diciott'anni delle debuttanti triestine, vestito di tutto punto con camicia su misura di Salvagno e cravatta di seta di Morziello Serafini.
Le guardie mi lasciano riavvolgere il sacco a pelo e ignorano i pochi indumenti che possiedo. Mi restituiscono il passaporto timbrato, posso proseguire.
La corriera si riempie lentamente, le ispezioni a turchi in entrata e persiani che rientrano sono un po' più complicate, ma alla fine dopo un'oretta riprendiamo il cammino.
Le montagne si addolciscono, la neve è scomparsa e il paesaggio comincia a essere color ocra e rossastro, pietroso e desertico. Stiamo attraversando una parte dell'Azerbaijan, quella che si trova in territorio persiano, seguendo il corso del fiume Aras le cui sorgenti sono vicino a Erzurum ma che poi scorre in Persia, al di qua dello spartiacque. Ogni tanto, vincendo la nausea dovuta alle giravolte della corriera, dò un'occhiata alla cartina del Medio Oriente che fa parte del mio corredo da viaggio: è una cartina telata della Bartholomew, comperata a Londra insieme alla sua sorella, quella dell'India. Sono carte fisiche, molto precise e particolareggiate, indispensabili per rendermi conto di dove mi trovo in questo mondo sterminato.
Ai lati della strada si cominciano a intravvedere le prime tende degli accampamenti nomadi, grandi e nere, e i primi cammelli.
Ho preso qualche informazione su Tabriz, anche se ci passerò attraverso senza fermarmi. La città ha più di un milione di abitanti, è la più importante della Persia nord-occidentale ed è il capoluogo dell'Azerbaijan orientale. Sta a milletrecento metri di altitudine, e il clima è continentale, freddo e asciutto.
La vallata scende gradualmente ed è circondata da monti multicolori e colline dai vari toni di giallo, punteggiate ogni tanto dalle grandi tende scure dove temporaneamente abitano nomadi e viandanti.
Ci sarebbero moltissime cose da vedere ed esplorare nel corso di un viaggio di questo genere: ma lascerò che sia il viaggio stesso a suggerirmi dove fermarmi, e per quanto tempo. Confesso di non provare un grande interesse per i luoghi più noti e celebrati, moschee comprese, tranne alcune. Sono attratto piuttosto dai bazaar, dai vicoletti delle aree più antiche delle città, dove la gente vive per strada, lontana dall'influenza dell'occidente e dove non si vedono abiti europei e automobili, al massimo girella qualche scooter coperto di coloratissime calcomanie fra minuscoli negozi di stoffe e forni del pane. Le fragranze che permeano le viuzze, le spezie, le ceste di frutta secca... I miei sensi sono saturati da odori, colori, suoni inusitati che creano un'atmosfera fiabesca, dove amo essere immerso.
Ma le corriere e le loro stazioni occupano spazi in aree molto più occidentalizzate, così come i vari uffici governativi e altre istituzioni che non si possono evitare: i pubblici ufficiali che rilasciano i visti e i permessi amano il look europeo, e si guardano bene dall'indossare turbanti o sandali o le ampie, comodissime casacche dei loro compatrioti meno abbienti. Ne risentirebbe la loro preziosa autorevolezza, e lo sguardo attento e accigliato dello Shah coglierebbe subito ogni riprovevole cedimento al sentire popolare. Secoli di regimi imperiali non possono non aver condizionato pesantemente il costume della gente: se lo Shah indossa giacca e cravatta, tutti gli impiegati faranno lo stesso alla faccia delle tradizionali palandrane e babbucce di Dario e Serse.
Per importante che sia, Tabriz non mi commuove e io mi trovo ad assecondare un ritmo di viaggio suggerito sia dal clima, peraltro ancora gelido, che dai mezzi a disposizione. In Persia si viaggia su corriere lungo strade infinite: si attraversano deserti le cui vastità sono punteggiate da rari accampamenti nomadi, lunghe file di cammelli in carovana e null'altro, e la sensazione è di star navigando verso mete irraggiungibili. Rallegrano il paesaggio le innumerevoli decorazioni luminose e scintillanti che addobbano i frontali di camion e corriere che ci vengono incontro, ma l'attimo allegro svanisce subito, inghiottito dal deserto.
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