INDIAN TRAIL 78: Tempus fugit.
INDIAN TRAIL 78: Tempus fugit.
Sempre più spesso vado a nord per vedere i miei genitori: il tempo passa rapido, e io comincio ad avvertire una certa urgenza, un bisogno di creare le occasioni per dirci quello che finora è rimasto sospeso. Forse perché siamo triestini, non brilliamo per l’espansività dei sentimenti. C’è una specie di sobrietà caratteriale, magari dovuta al clima di mare e vento, o forse modellata dai secoli di innumerevoli transiti di culture diverse su un territorio aspro di grotte e di calcare, ruvido retroterra di una città che esisteva ancora prima che fosse fondata Roma.
Quasi ogni mese vado lassù fra le montagne e il mare, dove il vento spazza selvaggio l’altopiano, e dove ancora verdeggia la pineta che mi ha visto adolescente, fugace esploratore della vita, giovane musicista anarchico, e che oggi mi vede erede di chissà quale fardello…. Ci vogliono circa sei ore di autostrada e infine arrivo alla casa, bianca e luminosa, incorniciata dai cedri deodara e guardata dall’antico tiglio gigantesco dove mi arrampicavo da piccino.
E’ ormai passato il tempo in cui, ancora arzilli, i miei venivano in Toscana e si rallegravano per i miglioramenti della casa lontana, per i restauri e il podere ben curato. Hanno visto i progressi fatti, e notata la costanza con cui negli anni sono rimasto fedele alle mie promesse. Alla lunga tutto questo li ha confortati e rassicurati, e anche se c’è voluta una buona quindicina d’anni, hanno capito che per inesplorate che fossero le mie scelte non erano in fondo frutto di follìa. Adesso ascoltano divertiti i miei racconti i cui protagonisti sono le galline, le volpi, i cinghiali…
Passeggio nel boschetto di pini che fa parte del terreno di proprietà e siccome mi sono portato dietro la motosega taglio a pezzi e accatasto le piante crollate, quelle pericolanti che minacciano i sentieri. Mio padre mi segue con cautela, aiuta con le cataste, piace a entrambi che il boschetto rimanga bello e pulito. Lui ha sempre apprezzato le abilità che le persone manifestano in ambiti lontani dalle sue immediate pertinenze legali, e io mi destreggio abbastanza bene in varie attività manuali, un po’ come faceva mio nonno Nino. Faccio per esempio fabbricare dal mio fabbro toscano dei corrimano su misura in ferro battuto, una decina fra lunghi e corti, me li porto a Trieste legati sul tetto della macchina e li metto in opera in vari punti strategici della casa, dove i miei che ormai sono piuttosto traballanti possano trovare appoggi sicuri. Moltiplico e potenzio le varie luci; con Sofia comperiamo e installiamo due poltrone che si posizionano con un comando elettrico, ed elimino gradini uniformando qualche dislivello. Insomma, cerco di facilitare tutti i transiti in casa e nel giardino. Sofia spesso viene con me, e mi aiuta e consiglia nei vari lavori.
I vegliardi sono ben accuditi dalle due badanti croate che abitano in casa e si occupano di tutto. Si occupano anche delle notevoli quantità di mandorle che mi porto appresso e che chiedo loro di schiacciare, visto che non hanno molto da fare: cucinano, puliscono e soprattutto stanno davanti alla televisione, come brave dame di compagnia .
I due antichi si muovono ormai pochissimo. Finalmente mio padre che fino a qualche anno fa, avendo smesso di guidare, ancora scendeva in città con la corriera, ha deciso che è più saggio rimanersene a casa. Mi racconta che camminando per strada ogni tanto il piede mancava il gradino del marciapiede e lui cadeva per terra. “Non importa” mi dice, “Tutti si fermano ad aiutare un vecchietto che cade per strada. Poi mi riconoscevano, dicevano ‘Signor Sindaco, non si è mica fatto male?’ e mi tiravano su. L’importante è non irrigidirsi, lasciarsi andare, così uno almeno evita di rompersi qualche osso”. Sono raggelato dall’idea del mio vecchio padre che cade per strada, ma trovo commovente che venisse ancora riconosciuto a più di quindici anni dal suo mandato. Con una bella risata al pensiero delle sue disavventure cittadine conclude: “Non ci vado più in città. Non ci vedo più tanto bene…” Mia madre annuisce, spegnendo una vietatissima sigaretta direttamente sul ripiano del tavolino lì accanto, che è tutto bruciacchiato. Lei è ormai quasi cieca, non centra mai il posacenere. Le badanti puliscono, pazienti.
Tempus fugit. Come io da bimbetto trotterellavo verso il sicuro rifugio delle braccia di mio padre, così oggi lui avanza verso di me, malfermo sulle gambe smagrite, lo sguardo reso vago da una cecità recente che gli ha sottratto la sua arte migliore, ovvero lo scrivere. Lo spirito è vivo, l’antica forza traspare nel suo essere pronto alla risata, nell’apprezzamento delle cose buone, come il cavolo cinese che ho saltato in padella questa sera con un po’ di agro di prugne umeboshi, o il vino della mia vigna toscana: ma il corpo antico, il sofisticato complesso di nervi e vene e muscoli che lo vide preolimpionico di scherma, è ormai esaurito. Mia madre ha le mani gelate, gliele massaggio un pochino, le infilo le pantofole ai piedi, mi siedo vicino alle poltrone gemelle dove entrambi trascorrono le loro giornate e leggo loro qualcuno dei miei racconti, o suono per loro la chitarra… Un giorno vado alla clinica dove lui è stato ricoverato per una decina di giorni, per riportarlo a casa: bisognava vederli, mamma e papà, ottantotto anni lei e novantuno lui, praticamente ciechi, ad abbracciarsi e baciarsi, felici di essere di nuovo insieme come due uccellini sul ramo.
Mamma ogni tanto chiede: “Manlio, cosa ci stiamo a fare?” Risponde papà: “O Sesi, aspettiamo di morire.”
Un triste giorno mio fratello mi chiama, mamma se ne sta andando: quando arrivo in città mi dice che per fortuna se n’è andata senza dolore, nella clinica di mio cugino. La accompagno alla sua ultima dimora, o meglio accompagno le sue ceneri. Così hanno deciso, i miei genitori.
Papà sembra aver assorbito il colpo con la resilienza delle antiche querce. Sessant’anni di vita insieme, addio per sempre, ci rivediamo in paradiso, il paradiso dei Sofi. Le generazioni lanciano la loro cintura ai piedi delle generazioni future. Sta a noi raccoglierla.
Le badanti sono davvero brave. Costosissime, ma essenziali. Hanno accudito mamma fino alla fine, e adesso badano a papà, lo alzano dal letto, lo nutrono con le loro abominevoli zuppe croate, gli propinano le medicine ai giusti orari. Si dileguano quando arrivo io, per lasciare spazio alle rare giornate di riunione famigliare.
Il vecchio padre mi accoglie, sempre contento di vedermi. Un giorno lo sospingo sotto il grande cedro del Libano in giardino, ormai non cammina e se ne sta sulla sedia a rotelle i cui percorsi ho facilitato con piani inclinati e passerelle varie… Mi inginocchio e gli prendo le mani sempre fredde fra le mie. Ho un groppo in gola.
“Papà -gli dico- c’è una cosa che volevo dirti: è stato un grande onore essere tuo figlio.” Mi accarezza la testa. ”Anche essere tuo padre.”
Il grande cedro ci avvolge nella sua magica ombra, ed entrambi sappiamo che queste sono le ultime parole davvero significative che ci scambieremo, in questa vita.
Oh casa, bella casa tanto amata, piccolo parco e minuscolo bosco di pini e carpini, ornielli e tigli e qualche quercia neonata...Bella casa, che ne sarà di te? Da te sono fuggito ventenne, su un’antica Lambretta e con una chitarra fra le gambe, tenda e saccopelo legati dietro. Eppure il cuore ama questa antica testimone, elegante di forma e di struttura, ben disegnata a suo tempo dal vecchissimo signore che giace dormivegliando nel suo studio silenzioso.
Fortunato sarà chi verrà a viverci, così vicina alla città di cui, alla prima curva, si vedono le luci scendere danzando dalle colline al mare. Tu, mansarda che mi ha traghettato attraverso le crude acque dell’adolescenza, ove ogni angolo è spigolo ed ogni spigolo è lama tagliente, tu che dalla tua finestra lasciavi uscire le note delle canzoni che avrebbero ispirato il mio viaggio verso il grande mondo, riempiendo le bisacce del mio piccolo cavallo d’acciaio con l’incolmabile nostalgia di ciò che è irraggiungibile. Farò un gesto per il tuo spirito, bella casa, aggiusterò le tue grondaie, ripulirò il tuo bosco come un marinaio tirerebbe in secca al sicuro la barca che lo ha aiutato fino alla riva
. Ma poi dovrò andarmene, forse dimenticarti. Chissà se un giorno, quando saremo atomi nell’universo, quando avremo forme nuove ed inaspettate, sarò io ad ospitarti
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