INDIAN TRAIL 75: La Fiera di Natale.
INDIAN TRAIL 75: La Fiera di Natale.
La mattina alle otto si apre. Vuol dire che alle sette, ancora al buio, bisogna essere sul posto e scaricare la macchina, aprire gli ombrelloni e piazzare i banchi. Il posto che mi hanno assegnato, dopo anni di purgatorio in periferia, è uno dei migliori di tutta la Fiera, in pieno centro e davanti a un prestigioso negozio di abbigliamento. Anche qui però fa un freddo micidiale: cinque, sei sotto zero e un’umidità nebbiosa che se siamo fortunati migliorerà qualche ora più tardi.
Nel quasi deserto della piazza -i colleghi arrivano più tardi con i furgoni attrezzati- ecco passare Mauro, lo spazzino mio amico con cui ogni mattina scambiamo due chiacchiere. A volte scappiamo a berci un caffè, per combattere il freddo. Passa anche il giornalaio che va ad aprire la sua edicola: “Ah, sito rivà” “Come no, se vedemo.”
Sofia mi aiuta a piazzare le luci, stendiamo i teli sui banchi che improvvisamente diventano eleganti, coperti dai lunghi teli neri di velluto di seta. E poi ecco stese le incisioni, molte su carta, molte altre incorniciate. Copriamo tutto con un nylon trasparente e lestamente ci rifugiamo al bar lì vicino, per una ben meritata colazione.
Non c’è bisogno di essere in due dietro il banco a quest’ora, perciò Sofia può starsene al bar a sorseggiare un tè caldo e leggere il giornale. Io devo preparare un po’ di cose, per esempio devo acquerellare qualche incisione raffigurante le Piazze di Padova, che sono uno dei soggetti più venduti. All’acqua nella tazza va aggiunto dell’alcool per evitare che diventi un blocchetto di ghiaccio. I guanti con le mezze dita proteggono fino a un certo punto, poi devo fermarmi e attivare una specie di cuscinetto a forma di saponetta che contiene un carboncino acceso e mi riscalda le mani. Di tanto in tanto, nella bruma appena albeggiante tiro fuori la chitarra e suono un paio di blues: anche questo riscalda le dita, e rallegra Mauro che posa la scopa di erica -mi ha spiegato che quelle cinesi non funzionano- e si sofferma qualche minuto ad ascoltare. C’è qualcosa di surreale il questa piazza antica e nebbiosa percorsa da note ed accordi mattutini.
Cominciano ad arrivare i furgoni dei venditori locali, quelli che aprono tutto l’anno. Gran saluti, come va, anche quest’anno eh? Sono amici e alleati: mi sorvegliano il banco se devo assentarmi, mi prestano una bicicletta se devo andare da qualche parte…
Passano i vigili a prendere le presenze, anche loro intirizziti, e poi arriva il primo cliente, il Pacioccone. Il Pacioccone è mio cliente da anni: di solito viene insieme alla moglie e spesso devo assistere a scenette di tira e molla in cui lui, entusiasta, viene frenato da lei, ragionevole e fermamente in opposizione.
“Bentornato! Ci si rivede, eh? Cos’ha portato di bello quest’anno?” Occhieggia, ammira. Solleva una coppia di paesaggi toscani. “Questi me li regala, vero? Dài, vengo qui tutti gli anni…”
“Se ne compera altri quattro o cinque, come no!”
“Ma sa che sono proprio belli? E a quanto me li farebbe? Quello sarebbe il prezzo? Me par caro, ciò, me par caro tanto.”
Pacioccone compera sempre qualcosa, e ritorna più volte a scegliere regali da fare e a tormentarmi con lunghe trattative: ormai è una specie di benvenuta istituzione.
La giornata procede piacevolmente. Si è alzato un tiepido solicello, non c’è vento e Sofia mi ha raggiunto al banco. Devo dire che a parte l’amato viso, il resto della sua silhouette è offuscato da numerosi strati di vestiario, maglioni, piumoni, calzoni imbottiti. A completare il quadro ci sono gli scarponi che calza e che fanno il paio con i miei, entrambi provenienti da un surplus militare: sono giganteschi anfibi dell’esercito tedesco, di quelli che anche se muori rimani in piedi, e che possono accogliere doppie calze di lana norvegese. Sofia possiede persino un paio di calzettoni dotati di batteria. Stare tutto il giorno in piedi sulle gelide pietre della piazza non è uno scherzo.
A fine giornata chiudiamo tutto, ritiriamo ogni cosa ben impacchettata, assicuriamo gli ombrelloni con corde e tiranti e, chiusa la macchina, ce ne andiamo al ristorante cinese a riscaldarci e rifocillarci. Abbiamo lavorato molto bene, è un ottimo inizio di fiera.
Dopo qualche giorno e sull’onda di numerose vendite arriva una delle mie clienti preferite: Suor Assunta. Suor Assunta dirige un’importante organizzazione e vuole arredare la sala da pranzo del convento. Le piacciono le nostre opere perché non ci sono scene violente: quasi tutti i quadri più grandi sono paesaggi, colline e case toscane, cieli vasti e alberi e stradine… molto rassicuranti e sereni. E poi lei è in grado di apprezzare la spiegazione che spesso mi trovo a dare sulla tecnica dell’acquaforte e sull’originalità di ogni singola opera. Capisce benissimo che sono oggetti di un certo pregio. Quando ha finito di scegliere una decina di bei lavori mi chiede di impacchettarli per bene e di consegnarli a una sua collega che verrà entro sera a prenderli. Una cliente così risolve da sola una giornata.
Le giornate trascorrono, gli affari vanno bene e l’appartamento che abbiamo affittato è abbastanza comodo. A pranzo andiamo a turno a casa a riscaldarci un po’ per poi affrontare il lungo pomeriggio: si sta aperti fino alle otto, sono dodici ore dalla mattina fino a sera. I vigili ripassano per le presenze, non si può chiudere prima. Il tempo di chiudere tutto e caricare la macchina, e sono le nove. Ristorante e buonanotte.
Sofia sta seduta tutta imbacuccata con una copertina sulle ginocchia, io sono vicino appollaiato su uno sgabello. Mi guarda e mi dice:
”E se ci sposassimo?” Rimango a bocca aperta.
“Dici davvero?”
“Certo: che te ne pare?”
“Mi pare un’ottima idea!”
Decisione presa. All’unanimità.
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