INDIAN TRAIL 69: Cerimonie.
INDIAN TRAIL 69: Cerimonie.
Me ne sto un po’ appartato, quasi nascosto fra i cespugli di manzanitas e vicino ad un ciuffo di fox-gloves di un intenso color fucsia: proprio all’interno di uno dei fiorellini se ne sta comoda comoda una minuscola tree-frog, una ranetta verdina e perfetta. Sto ricapitolando la grande quantità di informazioni delle ultime settimane, cerco di intravvedere il nesso fra le varie esperienze e provo a razionalizzare gli accadimenti: però alcune coordinate cui sono sempre stato abituato tendono a sfocarsi, come ad esempio il flusso del tempo. La cronologia degli eventi è un po’ confusa, penso che sia così perché le cerimonie tendono a creare una specie di sovrattempo che altera la sequenzialità degli eventi. E poi gli atteggiamenti delle persone nei miei confronti cambiano continuamente: oggi sono amichevoli, ieri mi confrontavano ad ogni passo, domani chissà… È come se qualcosa si stesse rimescolando e i miei pensieri navigassero in uno medium malleabile, fluido. Ma siccome sento il bisogno di trovare qualche punto stabile, provo a dare forma a quello che sto imparando, o almeno a ricostruirne quelli che mi sembrano essere gli assi portanti.
Una cerimonia serve a creare uno spazio in cui coloro che vi partecipano possono, se sono disposti a farlo, entrare in uno stato di percezione alterata e avere quindi accesso a esperienze altrimenti impervie. Quanto più è articolata, ben coreografata e accuratamente corredata di simboli, tanto più è efficace. Tutto l’evento agisce a livello inconscio, subliminale: non è immediatamente traducibile nei suoi effetti, che si manifesteranno col tempo. È chiaro che la guida, chief, che sceglie e attiva i simboli e i ritmi deve averne una profonda conoscenza.
Wolf definisce la cerimonia una macchina, un meccanismo dotato sia di una realtà fisica che di una spirituale. Le infrastrutture necessarie vanno costruite e organizzate con estrema attenzione e sostenute con preghiere. La sua ossatura è costituita da simboli, tradizione, prima e seconda attenzione, intento e creatività.
Un simbolo è una specie di crocevia dove confluiscono infinite percezioni, un luogo dove queste si diluiscono per attingere ad una consapevolezza più ampia che lascia in un certo senso un campo libero, un territorio da riempire. In altre parole: una cerimonia cambia lo stato di coscienza di chi vi partecipa, ne socchiude le porte percettive e consente l’ingresso di nuove cognizioni. Naturalmente, chi controlla i simboli utilizzati controlla anche la direzione delle nuove percezioni.
La tradizione fornisce una traccia collaudata da generazioni di persone Medicina, un sentiero su cui sentirsi abbastanza sicuri. L’intento è il potere invisibile che permette di portare il sogno nella realtà. È uno strumento raffinato e delicato: quasi un distillato della volontà, di cui conserva il senso di direzione ma senza l’urgenza e la spinta. In un certo senso è simile alla preghiera.
La creatività aggiunge dettagli e nuove forme alla cerimonia, e naturalmente è prerogativa del o della Chief, e dipende dalla sua inclinazione. Ravviva le procedure, perché le cerimonie hanno bisogno di essere rinnovate e rivitalizzate: nella Medicina nativa non sono riti staticamente ripetitivi.
La doppia attenzione fa sì che ci si possa concentrare sul lavoro in corso d’opera, per esempio la logistica, e contemporaneamente cantare, raccontare storie, ascoltare le battute del Heyokah, che è la persona il cui compito è di intervenire con il suo umorismo nei momenti di crisi. Nel nostro caso è Sequoia, che incarna a pennello la sacra figura: in ogni tribù c’era un personaggio del genere, l’Heyokah appunto, o contrario. In genere si tratta di una persona un po’ strana, sorprendente e che fa tutto al rovescio, ragionamenti compresi. Si racconta di Heyokah che cavalcavano solo seduti guardando indietro; uno famoso era noto per aver sempre e solo camminato sulle mani…La loro arte consiste nel guarire le persone con l’umorismo, spesso offrendo uno specchio che riflette il loro bigottismo e scuote le stampelle delle loro sicurezze. È una delle discipline più difficili e sofisticate che richiede una sensibilità ed equilibrio eccezionali.
Nella Storia, tutti coloro che hanno voluto guidare le masse, hanno sempre fatto uso e abuso di simboli: orpelli, bandiere, processioni, inni, statue, fanfare… Più grandi sono le masse da smuovere, più rozzi ed evidenti sono i simboli usati: perché devono essere compresi e percepiti dal maggior numero di persone possibile.
Una cerimonia individuale, o con un numero limitato di seekers, nella cultura nativa è una faccenda un po’ diversa, un po’ più sottile. Prima di entrare in cerimonia con altre persone occorre disfarsi di alcune remore, ostacoli che un Capo, o una Capa, percepiscono nei loro seekers e che inducono a superare con adeguate manovre propedeutiche personali.
Le mie elaborazioni vengono interrotte dal richiamo che ormai conosco bene: “Seeker!”. Vado incontro a Surya che è sorella di Rainbow, un po’ più giovane e altrettanto severa. “Seeker!” Sto sull’attenti. “Vieni con me.” Arriviamo a circa duecento metri dalla casa madre, proprio in cima ai campi in discesa che portano al bosco dove ho fatto la Vision Quest.
“Seeker: devi urlare con tutto il fiato che hai verso gli alberi laggiù e dire tutto quello che vuoi cambiare nella tua vita. Grida più che puoi. Puoi farlo in italiano: nessuno ti ascolterà tranne te stesso e gli alberi.” Surya se ne va. Io rimango a guardare la valletta che si stende ai miei piedi e gli alberi laggiù in fondo. Me ne sto immobile non sapendo bene da dove cominciare, dove prendere l’energia per far uscire la voce.
Comincio a gridare, ma mi sembra di essere afono: devo metterci più coraggio. Urlo, anche se non so bene che cosa sto dicendo. Non si formano frasi coerenti, e più le grida e le urla si intensificano e meno sembra avere importanza il significato. Voglio che gli alberi lontani mi sentano, trovo la seconda voce, quella che fa viaggiare i suoni sulle ali dell’aria. Non ho veri pensieri, è piuttosto una liberazione anche se non so bene da che cosa. Urlo più che posso, ho del tutto dimenticato che qualcuno può sentirmi… Dopo una mezz’ora sono rauco ed esausto. Mi siedo su una roccia, affranto.
Scendono delle gocce di pioggia, davvero inusuali per la stagione. Passa un’altra mezz’ora e riprendo con le urla, molto più fievoli ma più convinte. Individuo una particolare quercia laggiù, un giovane virgulto dalle foglie verdi e brillanti: sembra danzare con un’energia tutta sua, indipendente dalle altre. Visto che danza nella pioggia le dò un nome: Raindrop. D’ora in poi è a lei che invio le mie preghiere ed esternazioni.
“Molto bene, Scudo. Hai spaventato a morte quelle povere piante, ma si riprenderanno. Vieni, è ora di pranzo.” È passato un bel po’ di tempo ed è venuto a recuperarmi Ross che, per quanto le circostanze lo permettano, pare mi abbia preso in simpatia. Lui è un ufficiale, io sono un umile apprendista. Lui conosce segreti che io ambisco a scoprire, oscure vie di conoscenza, informazioni antiche e secretate che io vorrei esplorare. Sono qui per imparare, come recita il mio mantra.
“Devi sapere che le nostre antiche e i nostri antichi insegnano che quando piove dopo una cerimonia vuol dire che il lavoro ha funzionato, che la cerimonia ha avuto successo.”
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