INDIAN TRAIL 59: Lezione di stile.
INDIAN TRAIL 59: Lezione di stile.
Lupo Ombra ha commesso un errore imperdonabile: ha fatto la spesa e una volta arrivato a casa invece di mettere ogni cosa subito in frigorifero ha lasciato le buste sul tavolo in cucina. A me sembra un peccato veniale visto che la spesa è rimasta lì un’ora al massimo. Ma Cerva non la pensa così. Sento le urla dal bagno dove mi sto asciugando: mi vesto e trovo Cerva infuriata che grida in faccia a Ombra in tedesco frasi secche chiaramente insultanti… Ombra sta zitto e mogio, ne sta buscando da cinque minuti e non reagisce. Fa quasi pena. Anche Drago è presente, scuote la testa. La tragedia in corso dura ancora qualche minuto, poi all’improvviso Cerva si spegne, si gira verso di me, sorride e gentilissima, in inglese e con voce tranquilla mi spiega l’accaduto: “Questo maledetto idiota vuole ucciderci tutti! Ha lasciato la spesa a marcire. Le uova, il latte… Brutto cretino!” Mi sembra tutto un po’ esagerato, molto sopra le righe. Ma poi intuisco: è un esempio di come le emozioni si possano gestire quasi con un colpo di bacchetta magica. Un attimo prima Cerva urlava e sembrava pronta a mordere Ombra, un attimo dopo eccola calmissima e serena. Lo stesso Ombra, che pochi secondi prima aveva l’aria di una vittima sacrificale, esce all’istante dall’atteggiamento di terrorizzata sottomissione e comincia a sistemare la spesa come se nulla fosse accaduto. Drago mi guarda per vedere se sono rimasto intrappolato, coinvolto dalla scenata o se ho capito qualcosa: io mi sono spaventato davvero per le urla di Cerva e sono rimasto allocchito quando si è rivolta a me improvvisamente serena e affabile. Non sono così veloce a cambiare cappello, ma forse comincio a cogliere il senso della faccenda.
Sono di nuovo davanti al computer di Drago. Lui indossa uno strano cappello, o meglio una fascia di pelliccia leggera che gli circonda la fronte, un ornamento che su chiunque altro sembrerebbe assai strano ma che lui porta con indifferente eleganza.
“Ho letto i tuoi versi, le tue canzoni. Mi piacciono le tue poesie, e quello che davvero mi piace è che non c’è violenza.”
Le liriche di una delle mie canzoni appaiono sullo schermo, verso dopo verso. Il primo verso è evidenziato. Drago mi guarda e dà un comando rapido, e la prima parola aumenta di dimensione mentre tutto il resto rimane uguale. Poi cambia il font: da Times diventa Arial, e grassetto, e molto più grande. Passa alla seconda parola, che diventa gialla e in corsivo. La terza è verde, piccolissima e sottolineata, con tutt’altro carattere. Comincio a preoccuparmi: che cosa sta facendo? La quarta parola diventa enorme, blu e con un carattere leggermente gotico. La quinta è arancione, minuscola e tremolante. Mi sto irritando: non è modo di trattare l’opera di un poeta. Sono le mie rime, i miei versi, la mia lirica. Come si permette costui di maltrattare così il mio lavoro? Di manipolare senza pietà l’opera che con fiducia gli ho affidato? Intanto i versi cambiano colore, dimensione…Quando l’aumentare delle dimensioni del testo fa cascare fuori dal verso le ultime parole, che spariscono, mi accorgo che proprio non lo sopporto. Mi sto arrabbiando. Le mie amate frasi sono completamente trasformate, diverse, mutilate…
“Vedi” mi fa Drago “È facile muovere le emozioni. Ogni attaccamento, quando viene messo in discussione, le sollecita. Chiunque sia consapevole di questo fatto può manipolarti.”
Ha ragione. È la prevedibilità delle mie reazioni che fa di me una preda: proprio come l’abitudine che porta ogni animale a ripercorrere i soliti sentieri lo rende preda, così le mie automatiche risposte agli stimoli mi rende manipolabile, ovvio, banalmente vittima.
Ma Drago non ha finito.
“Prendiamo uno dei versi, uno qualunque. Lascia perdere il fatto che l’hai scritto tu: questa è una diversa faccenda. Potrebbe essere un qualsiasi verso di qualsiasi poeta.”
Temo già che ulteriori scempi stiano per essere compiuti sui miei capolavori. Drago evidenzia un verso, lo osserva e poi dice:
“Togliamo tutte le congiunzioni, le preposizioni, gli avverbi…” Fatto. Il verso è diventato un po’ più corto, ha perso un po’ di ritmo. “Ok, adesso eliminiamo gli aggettivi, che come dice la parola stessa “aggiungono”. Gli aggettivi non sono indispensabili, specificano, qualificano, ma si vive benissimo anche senza di loro.” Fatto. Il verso è diventato scarno, corto, l’ombra di se stesso.
“Mettiamo da parte ripetizioni e ridondanze. Ripuliamo il verso da tutto ciò che non è essenziale.”
Sono combattuto fra il sentirmi offeso da tanta crudeltà e l’essere curioso di vedere dove si andrà a finire. Del verso ormai sono rimasti solo i sostantivi e i predicati. Ci sono rimasto un po’ male, soprattutto all’inizio del bistrattamento, ma comincio ad apprezzare il fatto che l’insegnamento si articola sottile su versanti diversi: quello emozionale, quello stilistico e anche quello disciplinare. Drago mi osserva, ho l’impressione che non gli sfugga nessuno dei miei numerosi sommovimenti interiori.
“Ecco” fa Drago “questo è il cuore del verso, quello che rimane dopo averlo sfrondato e ripulito. Ha ancora un significato? È questo che vuoi trasmettere? Vedi, Scudo, molti artisti pensano che un’opera abbia valore solo perché l’hanno concepita, creata loro. Perché ‘è frutto della loro ispirazione’. Non sempre si chiedono da dove venga l’ispirazione, né si rendono conto che sono responsabili delle proprie opere. Una poesia non si regge su aggettivi, pronomi e calligrafia: ha bisogno di un cuore. Cercalo, e se non lo trovi, gettala.”
C’è una sobrietà e una pulizia che mi colpisce in questo insegnamento che nel suo apparente cinismo mi offre un punto di vista da me finora ignorato. Starà a me articolare e ramificare, ed estendere il significato delle informazioni ad altre aree, altri argomenti, se ne sarò capace.
Immagino che alla luce di queste nuove nozioni dovrò rivedere i testi delle canzoni che ho in cantiere per un prossimo disco.
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