INDIAN TRAIL 57: Intorno al fuoco.
Intorno al Fuoco
Negli ultimi tempi ho fatto numerose sortite dal mio eremo e partecipato a svariati seminari sia a fini di socializzazione che per informarmi su argomenti che trovo interessanti: la Filosofia Spirituale dei Nativi Americani, le Ruote di Medicina, le guarigioni con i cristalli di quarzo… Ho anche praticato il Tai Chi Chuan per anni con vari e varie insegnanti andando a Firenze un paio di volte alla settimana: tutto ciò mi ha fatto incontrare un bel po’ di gente che mi pare disposta ad approfondire la propria relazione con la Terra. Direi che ho l’occasione di mettere loro a disposizione una palestra dove allenarsi.
Faccio partire un centinaio di lettere di invito: spiego quello che è successo e chiedo, a chi è disposto, di venire quassù per due o tre giorni a dare una mano alla piantagione degli alberi: è una bella occasione per restituire alla Terra quello che l’umana stoltezza ha distrutto.
Con mia grande gioia verranno in quindici.
Questi preziosi amici ed amiche provengono tutti da diverse città: Firenze, Milano, Venezia… Ma ciò che li accomuna, a pare l’amore per madre Terra, è il fatto che non hanno mai preso una zappa in mano né probabilmente hanno mai piantato alberi in vita loro: per quanto siano ben disposti e pieni di buona volontà non posso certo aspettarmi che scavino un migliaio di buche nel terreno incolto. Perciò decido di dedicare alla piantagione tre campi che di solito non coltivo, e li faccio scassare, cioè arare a fondo, dal cingolato di Mario, il mio grande alleato e insegnante locale. Questo renderà molto più facile tutto il lavoro: sarà ugualmente faticoso ma almeno sarà realizzabile. Compero sette o otto zappe, due carriole, qualche secchio, una decina di paia di guanti da lavoro. Se dovesse piovere, come in effetti succederà, ecco pronti i due ombrelloni da fiera e qualche completo impermeabile. Grazie alle fiere ho abbastanza risorse da poter comperare un motocoltivatore nuovo di zecca, un Pasquali 18 cavalli giallo arancione fiammante, quattro grosse ruote motrici, carrello spazioso, si va dappertutto. Certo, bisogna metterlo in moto a strappo; ma siamo gagliardi, e per qualche anno ancora possiamo farcela.
L’appuntamento è fra un paio di mesi: mi do da fare per preparare le strutture di legno e i materassini dove gli ospiti dormiranno nei loro sacchi a pelo. Sarà tutto un po’ spartano, ma qui le cose stanno così e sono tutti avvertiti.
Sono pronto ed equipaggiato per quanto riguarda la logistica: ma sento che c’è qualcosa che ancora mi manca, un aspetto di cui intuisco l’urgenza anche se me ne sfuggono i connotati precisi: mi sembra importante trovare il modo di ispirare le persone e comunicare il versante spirituale dell’impresa, così che l’esperienza non si limiti ad essere una simpatica scampagnata fra amici, una come tante, ma che offra una prospettiva un po’ più profonda e che suggerisca i primi passi di un sentiero verso l’intimità nella relazione con il mondo di cui siamo parte. In fondo, questa è l’essenza della ricerca: ritrovare, riconoscere lo spirito nell’azione.
Ho da poco letto un libro bellissimo, Seven Arrows, scritto da un indiano Cheyenne, sciamano e Uomo di Medicina. La prosa è deliziosa come un ruscello di acqua limpida. In fondo al libro c’è un indirizzo e decido di scrivere all’autore, visto che è l’unica persona cui posso pensare di chiedere lumi sull’argomento. Gli spiego la situazione, vedremo cosa succede: intanto continuo con i preparativi.
Il nome di medicina dello scrittore è Wolf, e sorprendentemente mi risponde a stretto giro di posta. Scrive Wolf: (traduco non dal Cheyenne ma bensì dall’inglese che conosco meglio) “Ciao Scudo, non devi fare nulla di speciale: la situazione è già speciale. La prima sera invita le persone a sedere intorno al fuoco da campo e racconta la storia, racconta proprio quello che è successo. Capiranno tutte e tutti qual’è il punto, e ognuno trarrà la sua guarigione dal proprio cuore. Non devi fare altro. Sii semplice. E’ Madre Vita che parla per voi.”
Il fuoco intorno al quale siamo riuniti brilla nella notte e siamo ipnotizzati dalla danza delle fiamme e delle scintille. Racconto la storia, le persone sono attente e partecipi, l’atmosfera è magica.
Nei tre giorni che seguono affrontiamo l’impresa della piantagione. Ci organizziamo in tre gruppi di tre persone: uno porta le piantine con la carriola, un altro zappetta una buca nel terreno ammorbidito dall’aratura, un terzo libera l’alberello dalla plastica e lo interra, seguendo alcune semplici ma necessarie indicazioni. Un palo di tre metri ci dà le giuste distanze e ad ogni piantina viene dato il benvenuto e fatti gli auguri. C’è una pioggerella leggera e insistente, e due di noi abbastanza forzuti girano con gli ombrelloni proteggendo le squadre al lavoro. Il motocoltivatore pian piano si svuota e a fine mattina abbiamo sistemato quasi duecento piantine. Siamo tutti molto soddisfatti e affamati: due cuochi ci aspettano con un’immensa pastasciutta e affettati di vario genere. Il vino ci sarà a cena. E’ novembre, le giornate sono ormai brevi ed è meglio esser sobri e darci da fare.
A pranzo del terzo giorno celebriamo il successo dell’avventura. C’è persino il Prosecco di Valdobbiadene portato da Lucio, che lo ha tenuto nascosto fino all’ultimo nella sua Pandina. Ci sentiamo eroici e a ragione: abbiamo piantato milleduecento pianticelle fra cedri, pini, noci, cipressi… Adesso ci sono tre invisibili boschetti in tre diverse zone intorno a casa, boschetti che in tempi brevi, una ventina d’anni più o meno, rivestiranno la collina del loro splendido mantello.
Quando ci salutiamo ci sentiamo accomunati dalla tacita consapevolezza di aver fatto insieme un gran bel lavoro, forse addirittura un piccolo passo sul ponte sottile che unisce lo spirito e la materia.
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