INDIAN TRAIL 54: Una breve retrospettiva.
INDIAN TRAIL 54: Una breve retrospettiva.
A volte penso che forse dovrei fare come Proust, e chiudermi in una stanza foderata di sughero a rimembrare ogni attimo, ogni filamento della memoria, per insulso e insignificante che sia e sopravvissuto solo grazie all’assenza di una seria selezione. Oppure mi dovrei legare alla sedia come Alfieri, insistendo in una disciplina molto osannata dagli esegeti ma del cui valore non sono tanto sicuro. In tutta onestà però e senza voler parafrasare il grande filosofo greco, so di non sapere, e dunque scelgo, dal grande prato della vita, quei fiorellini che mi pare si armonizzino piacevolmente in un mazzolino colorato, sperando che sia anche significativo.
Mi hanno tirato su a Trieste, dove da piccino se volevo fare pipì prima di alzarmi dal letto dovevo chiamare la mamma per averne il permesso: nell’educazione dei bimbetti echeggiava ancora qualche venatura austroungarica. Poi mi hanno suggerito la lettura di Kipling, di London, di Jambo e di Salgari e in seguito, a scuola, mi hanno svezzato con la traduzione dei classici greci, con la scansione degli scazonti, con la metrica e la ritmica di mille anni fa. Quasi senza accorgermene ho acquisito interesse verso l’etimologia, la ricerca delle radici delle parole, il significato intrinseco dei suoni e delle sillabe: e per estensione ho imparato ad apprezzare il fatto che la vita è una questione di eleganza e l’eleganza è una questione di stile, e che ciascuno fa bene a cercare, trovare ed esprimere il proprio, di stile.
Delle origini ricordo ancora, per esserne stato diretto testimone, l’odore dello sterco dei cavalli nel pieno centro della mia Trieste quando le masserizie erano trasportate da carri trainati da normanni dagli zoccoli barbuti e dalla fulva criniera che transitavano proprio sotto casa nostra in pieno centro, casa dove, mi è stato detto, sono nato sul panno verde della scrivania di mio padre, aiutato dalla levatrice dal nome di buon augurio: Sollazzo. Da bimbetto davo un immenso valore a minuscoli frammenti di mosaico, nulla di speciale, tesserine smaltate di azzurro e verde e turchese che trovavo frammentate nei giardini dell’Ospedale di fronte a casa. Ogni tanto mia madre mi mandava a portare cinquecento lire al mio miserrimo vicino e compagno di scuola, Edoardo, in cima alle scale fatiscenti di una costruzione semidiroccata che non esiste più. Ebbene, come fare a trasmettere l’eredità diciamo così “culturale” dei tempi? Come far transitare la consapevolezza di epoche così velocemente in transito? C’è solo un modo che io conosca: raccontare.
Come dicevo, ho in memoria l’odore dei cavalli e quello dei sacchi di juta che venivano confezionati lì accanto, e quando mi mandavano a comperare il preziosissimo caffè ne comperavo dieci grammi, mai visto un etto intero. La nostra cucina, al terzo piano di una casa liberty -quella appunto dove sono nato-, era riscaldata da alte stufe di ceramica con fuochi alimentati da ciocchetti di legno che dei giovani gagliardi, ma anche a volte vecchietti tremebondi, portavano su per le scale in sacchi pieni di protuberanze spigolose… E’ vero che adesso, nella mia casa toscana, dipendo di nuovo dalla legna che devo accatastare a quintali per prepararmi all’inverno: ma è una mia scelta. Allora non c’era alternativa. Testimone di un’età in cui il telefono era un miracolo, la televisione non esisteva e in seguito aveva un unico canale in bianco e nero, e si potevano mangiare le cozze e i mussoli crudi per strada senza temere di beccarsi il tifo, mi chiedo se sia solo un futile esercizio di riesumazione o se abbia un senso storico l’essere parte di una generazione cerniera che nel vortice di un’epoca evolutasi precipitosamente si ritrova ad avere i piedi nello strame dei cavalli normanni e le mani sulle tastiere di sofisticatissimi e fulminei computer.
A ben guardare tuttavia, in fondo è solo un altro altro momento della Storia.
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