INDIAN TRAIL 43: Proprietà e possesso.
INDIAN TRAIL 43: Proprietà e possesso.
Prima del mio arrivo il podere è rimasto disabitato per molto tempo e i terreni sono diventati una sorta di territorio libero a disposizione di chiunque ne volesse fare uso. Bisogna che prenda qualche provvedimento, se voglio ricreare una zona di rispetto, e il primo con cui mi trovo a dover affrontare il problema è il buon Adelmo, il pastore del Borgo che è abituato a far pascolare il suo gregge nei campi migliori dei dintorni, cioè proprio quelli che intendo coltivare. Ho molte resistenze interne, sia per il mio carattere che per motivi ideologici: mi è piuttosto difficile entrare nella parte del proprietario che impone al povero pastore di levarsi di torno, anche se ho davvero bisogno di quei campi vicini alla fonte che sono i migliori per farci l’orto. Le pecore li hanno ben concimati, ma il concio di pecora non stagionato ha disseminato quantità inverosimili di gramigna e altre infestanti, e temo che ci sia anche un intenso allevamento di zecche di cui non sarà facile liberarmi.
“O Adelmo” gli dico un giorno che lo vedo arrivare giù per la stradina. “Ascoltate Adelmo, quei campetti giù alla fonte, be’, vorrei farci l’orto: bisogna che smettiate di andarci con le pecore. Pensate che ce la fate? Potreste andare giù lì, davanti a casa…” Non posso dire che l’idea mi piaccia troppo, anche lì le zecche non sono benvenute, ma sento che devo dargli un’alternativa. Avendo tutta la collina a disposizione non gli mancherebbe il pascolo, ma le abitudini sono dure a morire.
Adelmo è piccino, un po’ straccione e mite, sia di natura che per un’attitudine alla sudditanza che ha ereditato da secoli di mezzadrìa. Ne sono consapevole, e confesso che mi sento un verme a far la parte del boss.
“Va bene, va bene. Ci avevo già penzato che sarebbe finita così… E poi il padrone siete voi, ovvìa, si fa come dite.” Mamma mia: il padrone sono io… Anche i vermi hanno le loro responsabilità.
Vado in esplorazione in varie parti del podere che essendo molto esteso e in certi posti davvero impraticabile offre sfide e difficoltà di ogni genere. Ci sono luoghi quasi irraggiungibili se non facendosi strada con motosega, decespugliatore e fiumi di sudore, e molti di codesti posti rimangono intatti e selvaggi, perché la fatica non vale la pena. Ci penserà madre natura a colonizzare e nel frattempo ci si possono rifugiare animali selvatici di ogni tipo, cinghiali, volpi, leprotti… Un giorno mentre sono in mezzo a una giungla di grandi ginestre, rovi e rose canine il mio occhio coglie un bagliore, un guizzo giallo velocissimo. Mi immobilizzo ed eccolo riapparire sfrecciando: è l’uccello giallo della cui esistenza ho solo sentito favoleggiare una volta il Balena che ne parlava come di una specie di essere mitico ed estinto, mai più visto da tempo…
Mi accorgo che osservo con sguardo diverso ciò che cresce sul mio terreno, querce, aceri, ornielli e così via da quello, assolutamente uguale, che cresce giusto al di là del confine della proprietà. Ciò che mi appartiene grazie a un rogito notarile sembra avere per me una valenza diversa da ciò che è altrui, quasi ci fosse una differenza oggettiva che separa ciò che sta al di qua da ciò che sta al di là di un limite puramente soggettivo, culturale ed esclusivamente umano. In questo sentimento intravvedo una venatura di razzismo, un’ombra di peccato originale discriminatorio.
Seguendo le tracce di questo scomodo pensiero comincio a capire la genesi del fenomeno che, ampliandosi e articolandosi, si manifesta per l’appunto in razzismo e discriminazione. Il seme iniziale sembra essere assai semplice: ciò che è mio è più importante di ciò che è tuo. E per questa appartenenza lo difenderò e proteggerò a prescindere dal merito. Se applico questo atteggiamento e i comportamenti che ne conseguono al mondo umano, ecco che ognuno privilegerà i propri congiunti, i propri amici, il proprio quartiere, la propria nazione, e perché no, la propria razza…
Un’altra presenza che, soprattutto all’alba, è piuttosto fastidiosa è quella dei cacciatori. All’inizio non sono molti e quelli che arrivano fin quassù li conosco quasi tutti perché abitano nei dintorni. La presenza di una fonte perenne è nota sia agli animali selvatici che ai loro predatori e anche se di fonti ce ne sono altre qua e là nella vallata, questa dei Meli è la più comoda, con una bella vasca a disposizione anche d’estate per abbeverarsi: e infatti ne approfittano tutti, uccelli vari, famigliole di cinghiali, qualche leprotto… E naturalmente, i cacciatori.
Ogni tanto devo litigare con qualcuno troppo spudorato che viene a sparare proprio sotto casa. Un giorno mentre sto ritornando dal bosco con un gran mannello di legna sulla groppa vedo un paio di giovanotti tutti bardati da guerra che mi danno di spalle e se ne stanno appostati fra le colonne di una casetta che sto costruendo e a turno sparano mirando, senza riuscire a colpirla, ad una bottiglia di vetro blu che in un momento di stolta creatività ho fissato in cima al camino di casa, una ventina di metri più in là, dove scintilla al sole. Qualche metro più in basso sulla stessa verticale c’è la porta di casa, e visto che non colpiscono mai la bottiglia mi chiedo se per caso qualche pallino non raggiunge la porta. Ho una vivace trombetta che mi porto appresso nel bosco, per allertare della mia presenza eventuali cinghiali. Arrivato a un paio di metri senza che se ne accorgano caccio un forte squillo e lascio cadere la legna d’un tonfo. Spaventatissimi si girano: uno è un po’ più vecchio dell’altro ma sono entrambi giovani e baldanzosi.
“Che cazzo fate? Sparate verso casa? Ma siete cretini?”
“No, no ci scusi, non sapevamo….”
“Non sapevate? Cosa c’è da sapere, non vedete che non riuscite nemmeno a beccare la bottiglia! E se qualcuno usciva da casa?”
“Scusi, scusi. ci dispiace…”
“Frega niente delle scuse. Mostratemi i documenti. Subito!”
Tirano fuori le carte d’identità, memorizzo i nomi.
“Guardate: stavolta non vi denuncio, ma se vi vedo ancora da queste parti giuro che lo faccio.”
Se ne vanno mogi mogi, io raccolgo la legna e pian piano sento sbollire l’adrenalina.
Da queste parti la caccia è una tradizione antica e profondamente radicata e pur avendo perso gran parte del significato originale, cioè di procurarsi il cibo, conserva molte altre attrazioni che la tengono in vita. Non è interessante entrare nella psicologia fin troppo banale della faccenda. Quello che però sfugge di solito è l’aspetto più sottile, quello che ha un versante spirituale: e di questo sembra che i cacciatori non siano consapevoli o non tengano minimamente conto. Il fatto è che togliere la vita ad un essere vivente non è di per sé un misfatto, se viene fatto in modo rispettoso e per necessità. Ma lo diventa se lo si fa per divertimento, con leggerezza e sostanzialmente con disprezzo. Uccidere per sport genera una maculazione dello spirito, un’offesa al nostro essere più profondo.
Questo però è un argomento complesso che bisognerà affrontare con calma e poco per volta.
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