INDIAN TRAIL 42: Imparare la campagna

 Imparare la campagna.

Le fiere procedono, le stampe pure e le risorse affluiscono. Ma considero tutto questo lavorìo, per soddisfacente che sia, funzionale al mio vivere sulla cima della collina che mi ha accolto, protetto ed insegnato un sacco di cose, e della quale mi sento custode oltre che ospite.
Sulla proprietà ci sono circa centocinquanta piante d’olivo sparse qua e là in un modo che sulle prime mi sembra casuale ma che a pensarci un po’ su comprendo essere in realtà piuttosto intelligente: un olivo vive centinaia d’anni e all’atto della piantagione bisogna preparargli una buca bella profonda, un po’ come alla vigna che è anche lei assai longeva. Questo significa scavare praticamente tutto il buco nella roccia, perché siamo in collina e mai e poi mai quassù un contadino sacrificherebbe uno dei suoi rari e preziosi campi da semina: i campi servono per il grano, per l’avena, l’orto, il granturco… E comunque a scavare abbastanza si troverebbe pietra anche sotto molti seminativi. Perciò all’epoca si mandavano sul posto prescelto i ragazzotti con piccone e palo di ferro e qualche bigia secca per colazione e quelli scavavano la buca di un metro per un metro, più o meno una al giorno, quasi sempre su ripidi pendìi o in radure conquistate al bosco. A volte i maschi più anziani della famiglia erano impegnati a costruire muri a secco, spesso maneggiando pietre grandissime, per trattenere la terra e contrastare l’erosione. Capitava che le donne riportassero con delle ceste la terra verso monte, per conservare la fertilità dei terrazzamenti: e sul bordo si piantavano olivi.
I miei olivi sono stati abbandonati da una trentina d’anni e dunque si sono allungati a dismisura e devono competere e combattere con rovi e ginestre e querce. Li ho individuati, contati ed ho promesso loro di intervenire con potature e disboscamenti, ma ci vorrà del tempo e io non sono capace di potare un olivo: avrò bisogno di aiuto.
Vado a veglia da Mario del Balena, mio alleato e mentore.
“O Mario, come andiamo?”
“Ehilà Scudo, meno male che ogni tanto ti fai vedere!”
“Zelmira va a piglia’ il vino!” Zelmira è sua moglie. Devo dire che questo modo di fare, comandando le mogli come fossero sempre di servizio, è piuttosto diffuso. Non mi piace per niente, lo trovo offensivo e i primi tempi mi irritava e dovevo trattenermi dal reagire: ma ben presto ho capito che non è il caso di protestare. Usi e costumi, nessuno è perfetto. Zelmira torna dalla cantina con un bottiglione di rosso, e Mario versa un paio di bicchieri. Il fuocherello è acceso nel grande camino e un pentolone appeso alla catena sobbolle alla giusta distanza. Zelmira accosta un legnetto spingendolo con un ferro e dà una mescolatina ai fagioli che stanno cuocendo.
“Mario, mi daresti una mano a potare gli olivi? Io non sono capace, farei sicuro casino. E poi le piante sono scorse, occorre proprio riportarle in basso…”
“Me l’immagino, saranno trent’anni che nessuno le governa! Quante sono?”
“Sono parecchie, ma molte mi sa che toccherà abbandonarle… Stanno praticamente in mezzo al bosco…”
Beviamo. Mario ci pensa su e poi fa: “D’accordo, vengo domenica se per te va bene. Magari viene anche Renato, che è un po’ che vorrebbe venire ai Meli: ci veniva da ragazzo, il sabato, a ballare. Anch’io andavo al Borgo, ci s’andava insieme…”
“Benissimo, grazie Mario. A domenica.”
Mario e Renato sono velocissimi. E’ un piacere vedere con quale sicurezza riformano piante piene di rami scomposti, di succhioni grossi e lunghissimi e spesso coperte di rovi e rose canine. Usano destramente pennato, segaccio e cesoie e il mio compito è quello di rimuovere i mucchi di sterpaglie che via via si accumulano fra le piante. Anch’io ho un pennato affilato appeso al gancetto alla cintura, e riesco anche a farmi un taglietto mentre cerco di imitare la disinvoltura con cui i maestri maneggiano l’attrezzo. Cerco di capire il criterio che adottano negli interventi, di vedere dove fanno i tagli più grossi e ogni tanto faccio qualche domanda, ma le risposte sono sempre del tipo “Ecco, qui qui e qui.” E giù tagli. “Vedi, uno lasci e uno tagli. In cima ne lasci solo uno.” Zac zac zac: “I succhioni, via. Ma questo no, questo si tiene per il prossimo anno.” Ha scelto un ramo che sale che mi pare uguale a tutti gli altri. Mario si ferma un momento, mi guarda e fa: “E’ la pianta che ti dice dove devi tagliare”. Frase profonda e densa di significato di cui colgo il valore poetico, ma che per adesso mi rimane incomprensibile.
“O Scudo” mi fa il Balena. “Non t’aspettare gran frutti quest’anno, e nemmeno il prossimo. Tu a primavera vedi di cavargli i succhioni, ma non tutti eh! Lasciane qualcuno, quelli piccini vanno bene, proteggono dal sole. E tagli grossi non ne fare, che ci abbiamo pensato noi. E poi vedrai che qualcosa faranno, fra un paio d’anni”.
“Grazie Mario! Quanto vi devo?”
“Niente ci devi, Scudo: era un po’ che si voleva vedere come te la cavi. Mi fa piacere che tieni duro. L’olio vieni da me a comperarlo.”
Effettivamente ci vorranno altri tre anni prima che valga la pena di cominciare a frangere le nostre olive. Il frantoio, per macinare e premere in esclusiva le mie olive ne vuole almeno duecentocinquanta chili, se no le mescola con quelle altrui: e così infatti accade e accadrà per molti anni a venire. L’olio è squisito, verde smeraldo e profumato, un vero olio vergine toscano. Poco, ma buono.
Mi ci vogliono svariati anni per arrivare a produrre olio a sufficienza per tutta l’annata, e nel frattempo mi devo occupare di numerose altre faccende.
La vigna ad esempio sta ormai fruttificando con notevole vigore e devo preparare una cantina adatta a fare un buon Merlot. Faccio i miei calcoli: centosettanta piante ciascuna delle quali farà cinque chili di uva vuol dire più di ottocento chili d’uva. Considerando che il rapporto uva - vino è di circa il sessantacinque/settanta per cento, cioè che ogni cento chili d’uva si può contare su sessantacinque litri di vino ecco che mi troverò a maneggiare cinquecento litri di vino. Devo procurarmi le botti che accoglieranno tutto questo nettare.
E’ noto che non bisognerebbe mai fare i conti senza l’oste, soprattutto quando si tratta di vino e cantina: ma io sono inesperto della materia, e nel corso delle mie esperienze mi è capitato di fare una specie di sintesi filosofico-comportamentale riguardo all’arte in genere, genere di cui a mio avviso anche fare il vino fa parte: non si possono accettare compromessi. L’arte è come l’amore. Ogni dettaglio è importante, ogni sfumatura ha il suo peso: anche ciò che accade nell’invisibile, come gli stati d’animo, le speranze, le paure, gli attimi di gloriosa celebrazione partecipano al processo da cui infine emerge il risultato. Perciò quando compero le botti destinate alla vinificazione scelgo le più belle, quelle che conferiranno alla mia cantina un look davvero ammirevole. Compero perciò tre splendide botti ovali di rovere di Slavonia, due da cinque quintali e una da tre quintali. Sono bellissime: le doghe da sei centimetri di spessore, la forma ovale perfetta, persino il supporto su cui posano è di rovere. Sono bionde, eleganti: trasformano la mia umile cantina in una boutique di lusso.
Ebbene, una botte di rovere di Slavonia va trattata come se fosse una Ferrari, o una Rolls Royce. Per cominciare occorre liberarla dal tannino che il nobile legno contiene. A differenza delle Ferrari, bisogna riempire la botte di acqua pulita e tiepida: cinquecento litri a botte. L’acqua va lasciata nella botte un mese. Poi si svuota: ne esce un’acqua scura, un flusso che trasporta il tannino e altre sostanze fuori e lontano. Poi si riempie di nuovo, con del sale aggiunto. Un altro mese, poi si svuota. Questo procedimento si fa tre o quattro volte per ogni botte, finché l’acqua esce pulita. La botte va lasciata asciugare, poi è consigliabile bruciare all’interno una pastiglia di zolfo per inattivare eventuali batteri e muffe. Poi si aspetta la vendemmia.
Non so come mai, ma la vendemmia non obbedisce ai calcoli. I famosi ottocento chili di uva che dovrebbero dare cinquecento litri di mosto in realtà sono quattrocento, la metà, e il mosto è circa duecento litri. Dov’era l’oste quando facevo i miei conti? Ah, ero io.
Le splendide botti ovali di rovere sono destinate a rimanere all’asciutto, almeno per quest’anno.

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