INDIAN TRAIL 33: La battitura.
INDIAN TRAIL 33: La battitura.
C'è un'altra impresa destinata ad arricchirci di molta esperienza e poca remunerazione ed è la campagna del grano. Siamo in collina e molte delle lavorazioni vanno fatte a mano, tranne l'aratura dei campi e la copertura del seme. Su qualcuno dei nostri campi più agevoli per fortuna riesce a lavorare Beppone con la sua mietilega, cioè una falciatrice che oltre a mietere il grano ne lega le spighe a mannelli. Beppone arriva all'alba seduto sul trabiccolo a tre ruote, per l'appunto la mietilega e gli ci vogliono due ore per arrivare fin quassù. Si porta appresso una tanica di gasolio per la macchina e due bottiglioni di vino, carburante per l'umano. I due bottiglioni più una terza bottiglia, in tutto cinque litri, verranno consumati entro sera, insieme a due colossali panini di mortadella.
"Ehilà, Beppone, come andiamo? Lunga la strada?" L'amico è bassotto e tozzetto e ha un viso rosso mattone, chissà come mai, e un sorriso simpatico oltre a una forza straordinaria. E' uno degli alleati più preziosi che abbiamo: nessun altro verrebbe a fare i lavori che fa lui, che è disposto a farsi una decina di chilometri a passo di lumaca sul triciclo per raggiungerci per poi sgambettare per ore ed ore sui nostri campi.
"Bah, che vuoi, si fa quel che si può. Finchè duriamo, io e questa bestia qui" dà una pacca sul serbatoio. "Lo sai che ha quasi vent'anni? E cammina ancora come da giovane. Ha ha!"
"Meno male che ci sei tu, Beppone. Su queste piagge solo tu puoi farcela."
"Ma lo sai che ci venivo da ragazzo, a ballare ai Meli... E c'erano delle querce che tagliavamo per fare le traversine dei treni, ci mettevamo in quattro o cinque segantini... Si cavavano fino a cinquanta traversine da una quercia!"
Rabbrividisco. Ho un debole per le querce, oltre che per tutti gli altri alberi, e l'idea di querce immense sacrificate sia pure per il progresso mi rattrista. Ma è acqua passata e ne sono rimaste ancora una decina sparse sul podere, di querce secolari.
Beppone scende dall'attrezzo, ne smonta il sedile e riempie il serbatoio. Posiziona i bottiglioni all'ombra di una quercia e da quel momento in poi lavora guidando la scoppiettante falciatrice a mano perché i nostri campi non sono abbastanza pianeggianti da permettergli di stare seduto.
La mietitura a mano, che dobbiamo fare nei campetti più impervi dove Beppone non arriva, è piuttosto faticosa. Si acchiappa un fascio di spighe con un braccio e si taglia col falcetto e così via finchè ce ne sono abbastanza da farne un bel fascio. Si intrecciano velocemente due ciuffi di spighe e con quelli si lega il mannello. E così via. E' luglio, il sole cocente non dà tregua e le spighe sono dotate di barbe che punzecchiano e solleticano la pelle sudata. I mannelli poi vanno riuniti in gruppetti verticali, detti biche, spighe a testa in giù e coperti con altri mannelli orizzontali a tettuccio: potrebbe piovere e così sono un po' protetti. Staranno in loco ad asciugare per bene fino alla battitura. Quassù le biche vanno sorvegliate perchè ci sono dei cinghiali pronti ad approfittarne.
Il grano ci mette circa otto mesi fra semina e raccolto, da fine autunno ad estate inoltrata. Nel frattempo, come insegna la storia delle carestie da cui l'Europa è stata colpita per secoli, il grano corre un sacco di pericoli: formichine che saccheggiano i semi scoperti, uccelli che se li mangiano, piogge esagerate, siccità, vento che piega le spighe, e poi cinghiali... Il grano è un'epopea.
Per questo conclusa la mietitura e portate le innumerevoli derrate di mannelli sull'aia della casa ospite si procede da tempo immemorabile alla preparazione di una eccezionale festa: la battitura. Tutti i contadini del vicinato convergono con il proprio raccolto e sull'aia della casa prescelta si ergono svariati mucchi altissimi di spighe ammannellate, tutto intorno ad una macchina assai grande, complessa e rumorosissima che si chiama trebbia. I suoi misteriosi meccanismi interni sono azionati da pulegge che un trattore fa girare senza sosta. E' lì dentro che le spighe vengono battute, tritate, vagliate, legate in presse e da lì infine esce uno splendido frumento dorato, oltre ad un enorme nuvolone di microsostanze in sospensione nell'aria.
Sono stato invitato dal Balena, l'amico ossuto ed esperto che oltre ad insegnarmi a potare gli olivi e parecchio altro mi ha pure preso in simpatia. Il soprannome -quasi tutti hanno un soprannome da queste parti- non deriva dalla sua stazza che anzi è decisamente segaligna, bensì dal fatto che da giovane era velocissimo in tutto quello che faceva: balenava, per l'appunto. Mi ha aiutato a trasportare il nostro raccolto fino a casa sua, all'inizio della Valle, e ad accumularlo insieme ai raccolti altrui, ben più pingui. Ai Meli abbiamo seminato un ettaro e staremo a vedere quanto grano riusciamo ad ottenere.
E' sull'aia che avviene questa battitura e mentre gli uomini, io compreso, lavorano alle varie fasi dell'operazione avvolti in una incessante nebbia rosata di polvere e frastornati dal rumore continuo e battente, le donne apparecchiano l'immensa tavola e corrono qua e là portando grandi fiaschi di vino a noialtri, impegnati ognuno nel proprio compito. Dall'alto del mucchio di grano un paio di uomini dotati di forcone spingono i mannelli nella vorace bocca della trebbia all'interno della quale ha luogo una serie di rumorosissimi miracoli che alla fine producono un cospicuo rivolo di grano dorato che viene raccolto da due nerboruti in un sacco di juta e subito portato alla bascula per essere pesato: i nerboruti sono in quattro, due portano il sacco e altri due sono pronti con un altro sacco. I sacchi pesano cento chili, roba da far schiattare. Dall'altra parte escono le presse di paglia, legate e perfette. Pesano circa solo venti chili ciascuna, ma sono ingombranti e pelose. Mio compito è di acchiapparle via via che escono e lanciarle a due colleghi che stanno sotto un capannone lì accanto: loro le accatastano per bene e si fermano solo per bere dalle caraffe che le signore gentilmente ci portano. Noi siamo tutti sudati e scamiciati, adrenalinizzati e, confesso, lievemente ubriachi. Il lavoro sta andando avanti da ore e il caldo aumenta col procedere delle operazioni e della polvere che è un sottoprodotto continuo della trebbia: grano, paglia e polvere. Via via che l'ordinato cumulo di presse aumenta io devo lanciarle sempre più in alto, con l'incoraggiamento di quelli lassù che sono in due e belli bevuti: "Trieste, dài, forza! Alò, mandane un'altra che qua ci addormentiamo!". Venti chili non sono molti ma se li moltiplico per alcune centinaia di presse diventano parecchi. Il ritmo è costante ed esce una pressa ogni mezzo minuto.
Vesciche sulle mani, sudore a rivoli, denti stretti. Il mucchio enorme di mannelli è ormai quasi esaurito e le presse di paglia anche. Non così il vino. Le signore sgambettano fra il forno del pane dove numerosi arrosti finiscono di rosolare e la tavola imbandita, e quando il trattore si ferma ed il rumore cessa ci permettono di accostarci alla pompa dell'acqua per darci una lavata. Sono le due del pomeriggio, abbiamo cominciato alle otto.
A tavola siamo circa venticinque. Vino bianco e rosso, pane, salame, prosciutto, formaggi, pinzimoni di sedano e carote... Arriva il brodo con piccola pasta, così, per aprire lo stomaco. Seguono grandi vassoi con il lesso: gallina, manzo, lingua... Salse verdi, senape. Finalmente ecco la pastasciutta, due enormi pentole di tagliatelle al ragù di oca e al sugo di cinghiale. Poi arrivano gli arrosti: ocio, pollo, tacchino, maiale, salsicce... sughi di arrosto a condire il tutto. Un goccio di vino è prassi costante. Infine l'insalata e poi per finir bene, i dolci e, perchè no, i formaggi..
E' una meraviglia di festa, ma forse è un bene che si batta il grano una sola volta all'anno.
Una sola nota appena stridente: il minuscolo borghetto dove avviene tutto ciò è detto la Piccola Russia, perchè è una ristretta enclave progressista in un'area ampiamente scudocrociata. Tuttavia, a capotavola del lunghissimo desco imbandito ci sono due posti riservati a ospiti che si suppone arrivino a fine lavori: la vera padrona del podere che ci ospita e il prete della vicina canonica. La padrona non appare,ma il prete sì. Avverto un certo simbolismo medioevale.
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