INDIAN TRAIL 7. La comune.
INDIAN TRAIL 7 La comune.
Chitarra e borsone in macchina e venduta una bella Fender Stratocaster per ricrearmi un gruzzoletto, riprendo la via dell’ignoto.
Ho una traccia lievissima da seguire, un paio di nomi di persone che avevo conosciuto anni prima durante una visita nella loro comune vicino a Todi: la Pizzichina. Voglio vedere se posso raggiungerli, e condividere la loro esperienza agricolo-comunarda. A Padova però, ospite di un gruppetto di amici che si ricordano di me da quella volta che suonai in un concerto nella Sala dei Giganti, vengo a sapere che la Pizzichina non esiste più, e che la comune si è spostata non si sa dove. Sembra però che esista un altro gruppo che da Padova si è trasferito in campagna in Toscana: è un piccolo nucleo che si è aggregato per insediarsi alla Badiola, una cascina vicino a Pontassieve.
E' tarda sera quando, districatomi da un labirinto di stradine sterrate e prive di indicazioni, arrivo sull'aia della cascina Badiola. Scendo, guardo la facciata buia dalle finestre tutte chiuse, tranne una persiana che cigola e sbatte sul muro mossa dal vento. Il luogo è abbandonato. La traccia già fievole sembra svanire del tutto.
Mi accomodo o meglio mi accoccolo nel retro della R4 protetto dal sacco a pelo -lo stesso che è venuto fin sull'Himalaya con me- a tenermi calduccio e con la chitarra accanto a farmi compagnia. Sono nelle mani del destino, non intendo preoccuparmi. Buonanotte.
All'alba vedo un signore ben vestito passare dietro un muretto lì vicino: mi affretto a scrollarmi di dosso qualche piuma uscita dal sacco a pelo ed a riavviarmi un po' la chioma prima di andare ad interpellarlo. E' un colpo di fortuna: si tratta di un assicuratore che è ben informato sui destini della piccola comune.
"Sono stati qui un annetto, ma già la gente qua intorno li vedeva un po' strani, con quei capelli lunghi e le barbe... e poi gli scappavano i maiali, non sapevano custodirli, facevano danni negli orti vicini... Insomma, era impossibile continuare. Per fortuna la mia zona è la Val di Chiana, faccio l'assicuratore, e conoscevo alcune case abbandonate... Adesso stanno a Castiglion Fiorentino, sulle colline, non so con precisione l'indirizzo, ma basta chiedere ai carabinieri." Non mi pare un gran suggerimento, ma vedremp.
Non conosco bene la Toscana e quando sento "Castiglion Fiorentino" penso a Firenze, che è piuttosto vicina. Ma mi sbaglio: guido seguendo una statale che attraversa alte colline e poi montagne svalicando il passo della Consuma per poi scendere nel Casentino passando per la piana di Campaldino dove, come avevo imparato sui banchi di scuola, Guelfi e Ghibellini se le erano suonate di santa ragione nella famosa battaglia del 1289, che vide pure Dante Alighieri e Cecco Angiolieri nella veste di combattenti. Poi attraverso Arezzo ed arrivo a Castiglion Fiorentino.
Alle spalle del paese si apre una bellissima valle verdeggiante e punteggiata di case coloniche dolcemente adagiate sui versanti delle colline che la circondano. Oliveti e vigne, campi di grano e vaste quercete sembrano disegnati apposta per decorare il paesaggio: ogni casa è abbastanza distante da ogni altra da essere un completo, individuabile dettaglio di un quadro vasto, luminoso e pacifico.
La valle, che si chiama Val di Chio, non è molto lunga: sei o sette chilometri di pianura prima di incontrare il colle della Montanina, il più alto della corona di colline che racchiude la valle. In cima ci sono le rovine della Rocca della Montanina, un antico castello vecchio di mille anni.
La strada è sterrata ed erta, è più una pista da boscaioli che una vera strada, ed i fossati e gli sciacqui che l'attraversano sono profondi e sconnessi, una sfida continua per la R4 che però si inerpica, lenta ma inesorabile. Due o tre eterni chilometri di impervia salita mi portano sul crinale, alla base del grande cono su cui si ergono, dirute ma ben visibili, le rimanenti mura del castello: è una dorsale che strategicamente divide la Toscana dall'Umbria, e dal breve spiazzo libero da ginestre si gode una vista mozzafiato fino ai colli Senesi ad ovest e fino all'Appennino ad est.
E' la fine di maggio e le ginestre, milioni di ginestre, sono tutte in fiore. Affiancano la stradina come siepi gelose, e dopo il colpo d'occhio offerto dallo spiazzo ai piedi della Rocca è impossibile vedere al di là della barriera verde e giallo oro. Proseguo cautamente, la strada è pessima e non vedo nulla ai lati. Ben presto perdo il senso dell'orientamento e posso solo avanzare, avvolto dal profumo intenso dell'infinita fioritura. Dopo tre o quattro chilometri, completamente sperso ed inebriato, comincia una discesa spietata, sempre avvolta da dense ginestre, subito seguita da una seconda ed una terza, un po' meno precipitosa. Improvvisamente dietro una curva compare un gruppetto di case, e la strada finisce in un minuscolo slargo. Mi fermo e tiro un sospiro di sollievo. Comincia a fare buio, le casette si tingono di rosso tramonto.
Il sollievo è di breve durata: sulla sinistra c'è un recinto in pietra: tutto è di pietra qui, case, scalette, muretti, e da una angoletto del maialaio, - il recinto in effettti ospita due bei maiali- compare una donna, bionda, bellissima, con un fiasco di vino in mano. Indossa una gonna variopinta, una camicetta che a malapena nasconde un notevole seno ed un paio sciarpe colorate avvolte alla vita. Mi guarda impassibile con occhi verde smeraldo, mentre io la osservo catafratto.
"Che cazzo vuoi?" mi fa. Ha una bocca rosso scarlatto, il rossetto appena sbavato da un lato. "La vedi la strada da cui sei venuto? Be', gira la macchina e torna indietro."
Io sono ancora seduto col mezzo finestrino della portiera aperto ed il gomito appoggiato, in posa amichevole e sorridente: mi è difficile credere che la bella stia facendo sul serio. Ma ecco comparire un tipo alto, barbuto, dotato di spalle ampie, coperte da una rozza camicia dalle cui maniche spuntano due braccia considerevoli: in mano ha un forcone a tre punte cui si appoggia con nonchalanche. Lunghi capelli scuri, un gran bel tipo anche lui.
"Hai sentito quel che ti ha detto? Girati e levati dalle palle. Non vogliamo rompicoglioni qui."
Comincio ad averne abbastanza. Non sono arrivato fino a questo sperduto mucchio di pietre per sentirmi maltrattare da due tizi qualunque, per caratteristici e bellocci che siano. Inoltre sono stanco, ed il buio avanza.
"Sentite, va bene, me ne vado: sappiate però che a me, di voi, non me ne frega niente. Son qui perchè sto cercando Alberto della Pizzichina, e qualcuno mi ha detto che voi potreste sapere dove sono finiti, lui, la Lia, Paola..."
I due si illuminano. Ho proferito la parola magica: Alberto. Va detto che Alberto è stato il fondatore, insieme ai suoi amici, di una delle primissime comuni in Italia. E' rispettato come pioniere ed iniziatore. Conoscerlo è un titolo di merito e, in questa situazione, una chiave. Se sono un suo amico, vado accolto a braccia aperte.
"Ah, ma se conosci Alberto allora cambia tutto! Vieni, vieni. O mamma mia! Parcheggia pure lì e vieni dentro che ti facciamo conoscere gli altri!"
Si scambiano sguardi, sembrano contenti ed eccitati da una visita di qualcuno, raro esemplare, che sembra far parte della dispersa comunità dei non inseriti nel "sistema", e soprattutto che non è spinto dalla curiosità di cui la piccola comune è spesso fatta segno da parte degli abitanti della zona.
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