Indian Trail 6 : In viaggio.
Indian Trail 6: In viaggio
Non sempre i balzi sono immediati e subitanei: alcuni sogni non si realizzano in quattro e quattr’otto: questo balzo sarà lungo e lento, perché l’India non è proprio dietro l’angolo e mi ci vorrà un po’ di tempo per arrivarci visto che viaggerò per via di terra: seguirò a tratti il percorso dell'antica Via della Seta, che studio su due bellissime carte telate Bartholomew che mi sono procurato e che viaggeranno con me.
Mi piace l’idea di avvicinarmi piano piano alla meta, di vedere il dipanarsi della strada di paese in paese, di gente in gente, attraverso i sapori, gli odori, le lingue e le architetture che si trasformano e mi modellano. E’ un processo di adattamento continuo, ha bisogno di tempo e flessibilità: il tempo me lo sono conquistato, e la flessibilità spero non mi abbandoni.
Traghetto fino ad Amsterdam, deliziosa città popolata da un’inesauribile folla di miei simili, capelli scomposti ed abiti fluttuanti, gruppetti che soggiornano in ogni anfratto del Vondell Park, senza che nessuno li venga a disturbare e senza disturbare nessuno.
Un paio di giorni e poi eccomi sulla strada verso la Germania, pollice alzato fra decine di pollici alzati che ad intervalli lungo il bordo attendono di esser baciati dalla fortuna e trovare un passaggio verso sud. Qualcuno raccoglie anche me e mi porta giù, attraverso le vaste pianure tedesche, e mi lascia ad un incrocio di autostrade nella sera che prelude la notte estiva. Stendo il sacco a pelo sotto dei cespugli in mezzo ad un’aiuola che separa i viadotti, è ormai buio pesto e confido nella protezione dell’oscurità. Possiedo un pezzetto di formaggio olandese, del pane ed una bella cipolla. Oggi devo aver percorso tre o quattrocento chilometri. Domani vedremo.
Le luci blu della macchina della polizia lampeggiano senza pietà, ed un paio di maglites esplorano il mio sacco a pelo svegliandomi dal sonno del giusto. Mi tiro su a sedere, mi guardo intorno, sono in due in divisa ed io provo a dire qualcosa in inglese tipo “Sorry, tired”: si guardano fra loro, ridacchiano un po’ e poi uno mi fa “Tomorrow, go”. “Yes!”. Mai mi sarei aspettato un atteggiamento così comprensivo.
Munich, Garmish, Brennero, Trieste.
Non mi fermo a Trieste tranne che per affidare la mia preziosa chitarra –è una rara Martin- ad alcuni amici. Preferisco continuare il viaggio senza rallentamenti e preoccupazioni. Scriverò alla famiglia da qualche luogo lontano, quando la polvere d’Europa sarà stata trasmutata da quella d’Oriente, e quando le nuove immagini e sensazioni avranno avuto tempo di nutrire un nuovo capitolo di vita ed esperienze.
Roma, Brindisi, Igoumenitsa.
Sono in Grecia, non si scherza più: forse è stato l’attraversamento del mare ma ho l’impressione di aver lasciato andare l’ultimo appiglio che mi teneva agganciato alla mia vecchia vita.
La spiaggia di Igoumenitsa è miserrima, ciottolosa e priva di qualsiasi fascino che il mare le potrebbe conferire: stretta e piena di alghe, popolata da qualche raro umano che sembra si sia arenato lì dopo un naufragio.
C’è un cane, un orrendo esemplare espressione di cromosomi incrociati innumerevoli volte in modo casuale e sconveniente. E’ marrone, scodinzolante ed amichevole. Si chiama Fart, Scorreggia, ed appartiene ad una coppia di inglesi piuttosto straccioni –non che io sia un figurino- che albergano da qualche tempo sulla misera spiaggia in attesa di qualche evento che li sollevi dal loro destino. Non è luogo dove soffermarsi.
Compero il necessario: un paio di cipolle, un sacchetto di pistacchi, del pane e qualche carota, ovvero il cibo che mi accompagnerà in seguito su treni, corriere e camion di tutti i generi. Cerco di interpretare le insegne dei negozi, riesco a leggere la grafia greca perché in fondo ho fatto il liceo classico e le lettere sono ancora le stesse. Sono ancora in grado di recitare l’alfabeto greco a raffica, anche se di sintassi e grammatica ricordo ben poco: e poi se appena tento di spiccicar parola, quello che esce è una sorta di greco classico che nessuno capisce. Queste persone non formano le frasi come facevano Omero e Senofonte, e se ne fregano del fatto che io sappia a memoria le prime righe dell’Apologia di Socrate: devo sembrare un troglodita nel mondo nuovo.
Si ferma una coppia di viaggiatori su una macchina sportiva, bassotta e scoperta, occhiali da sole ed aria vacanziera. Sono due giovani gay, belgi danarosi allegri e spensierati e mi portano fino a Ioanina. Ringrazio, scendo in un crocevia periferico. Si ferma un autocarro che trasporta angurie e mi porta fino a Larissa, un po’ troppo a sud rispetto alla via più diretta che passerebbe sotto la Macedonia. Ma è lì che sono dirette le angurie, e non è certo il caso di fare gli schizzinosi. E poi lungo il percorso avrò l’occasione di intravvedere le torri granitiche che reggono i monasteri di Meteora, oggi patrimonio dell’umanità, che si ergono ad altezze impossibili a testimonianza del bisogno di appartarsi degli antichi asceti. Mi par di ricordare che per arrivarci occorresse farsi scarrucolare in verticale per centinaia di metri seduti in un cesto, o simili. Mi disturba il pensiero che per moltissimo tempo l’accesso sia stato interdetto alle donne, a testimonianza della miopia dei medesimi asceti, peraltro condivisa da dozzine di altre fedi e credenze.
Larissa, capoluogo della Tessaglia, è sicuramente interessantissima, ma come spesso mi accade godo solo dell’ospitalità di un argine rialzato a lato della strada di circonvallazione. Le luci lontane della città ammiccano nella nebbiolina serale, il mio lettino di erbette e sacco a pelo è pronto. C’è qualche nuvola dai margini ancora rosati, la disegno sul mio libretto di appunti. Cipolla, mela, pane: ecco la cena.
Verso nord, Salonicco, Kavala, Alessandropoli, ed infine il confine turco.
Ormai sono in Oriente. Medio finchè si vuole, ma dalle atmosfere già molto diverse da quelle che conosco da sempre. E’ tempo di cominciare a stare attenti. Il mio look mi espone ad una accurata attenzione da parte delle guardie in genere, quelle di confine in particolare: non che io sia esageratamente esotico, ma è chiaro che non appartengo a nessuno dei luoghi che sto attraversando. Certo, ne passano a migliaia di viandanti dall’aspetto un po’ trasgressivo, non è più una novità, ma è sempre opportuno stare in campana. La strada che passa da Kesan e Malkara, che sulla cartina mi sembra la più veloce verso Istanbul e che ho la fortuna di percorrere trasportato da un gruppetto di colleghi viaggiatori, è continuamente sorvegliata da piccole garritte di sentinelle militari armate ed a volte interrotta da posti di blocco del tutto inutili che servono però benissimo a rallentarci ed innervosirci.
Ci vogliono circa trecento chilometri prima di entrare ad Istanbul. Si attraversa il Bosforo per arrivare nel quartiere di Sultan Ahmet, dove la maggior parte dei viaggiatori del nostro stampo trova alloggio in alberghetti piuttosto fatiscenti ma dai prezzi raggiungibili. Nella grande piazza si erge la grande e magnifica Moschea Blu.
I ristorantini, il grande bazar, le salette da tè e le spartane ma accoglienti stanzette delle pensioncine offrono un piacevole e quasi sicuro rifugio: la dieta di pane e carote e pistacchi si può temporaneamente interrompere in favore di intingoli dai sapori esotici, sesamo tostato, leccornie varie a me sconosciute: rimane la costante delle cipolle, che accompagnano gli spiedini di shish-kebab, e molte altre specialità in forma di involtini e fagottini multiformi e squisiti.
Il bazar è magico, colmo di miriadi di oggetti luccicanti, ottoni lucidissimi, lampade dai vetri multicolori che illuminano i labirintici passaggi e corridoi, banchi di pietre dure e semipreziose, incensi accesi dappertutto che emanano profumo di sandalo e rosa e molte altre essenze, creando un’atmosfera opaca e lievemente stordente. Tappeti di tutte le forme e colori, tamburi e tamburelli e cimbali e campanelle, giacche e giacconi di pelle bianca di montone, con il pelo all’interno, abiti da donna coloratissimi, sciarpe e babbucce dalle forme graziosissime. Narghilè di ogni dimensione, alcuni enormi, e samovar o simili con tazze e tazzine e vassoi, tutto splendente ed ammiccante.
Gli inviti a guardare, esaminare, toccare e comperare sono incessanti. I venditori sanno fin da subito che io non sono il classico turista che si può strizzare, ma il loro stile rimane inalterato e mi viene offerto più di un tè corredato da dolcetti di sesamo all’interno dei negozietti. Questi Turchi sono cordialissimi, e fra l’altro sembra che gli Italiani gli siano perticolarmente simpatici. Conoscono persino qualche parola del nostro idioma.
Sono in ammutolita ammirazione della Moschea Blu.
Lascio le scarpe all’ingresso. L’immenso pavimento di pietra è completamente coperto da tappeti fantastici su cui ci si può inginocchiare per devozione. Miriadi di lampade sono appese a mezz’aria a notevole altezza e sembrano levitare nel volume infinito sovrastato dalle numerose altissime cupole azzurre, illuminando le famose decorazioni arabescate che sono per lo più scritte che citano le sure coraniche e creano un effetto grafico elegantissimo. Innumerevoli le piastrelle ceramiche che rivestono colonne e nicchie e pareti, formando complicatissimi mosaici multicolori: ci sono più di ventimila piastrelle color turchese inserite nelle pareti ed infinite maioliche blu e verdi che ricoprono le colonne. Nell’arte islamica non sono permesse decorazioni che ritraggano forme umane o animali, perciò ogni tratto è una celebrazione coranica o una forma geometrica. Centinaia di finestre alleggeriscono la colossale struttura che all’esterno è guardata da sei minareti dal tetto a punta, rigorosamente blu.
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