INDIAN TRAIL 6.: Interludio.
INDIAN TRAIL 6: Interludio.
I balzi dovrebbero essere, per antonomasia, ratti e fulminei: ma nel mio caso si tratta di un balzo destinato a durare otto mesi, perciò mi trattengo dall'entrare nello specifico racconto -di cui probabilmente citerò qualche episodio- per riprendere dal punto in cui, dopo aver percorso svariate migliaia di chilometri attraversando Turchia, Persia, Afghanistan, Pakistan, India e Nepal sia all'andata che al ritorno, risalgo infine la Yugoslavia e mi riaffaccio alla bella Italia ed all'amata Trieste.
Il viaggio è stato lungo abbastanza da confondermi un po' le idee in fatto di moda, e di indurmi a di scegliere, sulla via del ritorno a Herat in Afghanistan, una stoffa di un delizioso colore lilla con cui farmi cucire un paio di braghe nuove in sostituzione di quelle un po' sbrindellate in mio possesso. Convinto di aver così soddisfatti i dettami della convenienza europea (ho anche una bella camiciola afghana bianca con ricamo nello zainetto), eccomi pronto al rientro in patria.
A Trieste il confine di Basovizza è abbellito da un'immensa scritta sul fianco di una collina, W Tito, ed è presidiato da guardie titine con cappello e stella rossa, mitra a tracolla e sguardo intento a scrutare soprattutto i viaggiatori che rientrano dall’Italia: c’è un fiorentissimo commercio transfrontaliero perché gran parte dei beni che si trovano nei negozi triestini non sono reperibili al di là del confine. Ecco perciò un continuo via vai di macchine cariche di ogni cosa, lavatrici, buste con indumenti, valigie, elettrodomestici a non finire. Ottimo per i nostri negozianti, pessimo per l’ambiente perché tutto viene tolto dagli imballaggi, cartoni, plastiche, ferraglia, e gettato ai lati della strada che va al confine Yugoslavo.
Nonostante le mie belle braghe violette una guardia, dopo aver studiato il passaporto con tutti quei visti alieni, mi fa aprire lo zainetto e fra le altre poche cose trova il mio chillum. Lo rovescia e ne cade la pietrolina che serve da tappo sul fondo. La spacca, vede che è solo una umile pietruzza e deluso dall'aver perso l'occasione di arrestare uno spacciatore internazionale mi manda per la mia strada
La bella casa dove gran parte della mia adolescenza, devo dire mio malgrado, si è svolta, sta sull'altipiano carsico, a pochi minuti dal centro di Trieste su un ettaro di terreno che i miei genitori con notevole lungimiranza hanno comperato tempo fa. Ricordo gli spari delle mine che mio nonno, preparando i buchi per la dinamite con un attrezzo detto "strangolin", cioè una lunga e pesante punta d'acciaio manovrata manualmente e che alla fine aveva una sorta di elica che ad ogni colpo scavava un millimetro o due, faceva brillare per poi estrarre le rocce carsiche e quindi creare una fossa dove piantare gli alberi. Il Carso offre pochissime aree fertili, le doline, ovvero depressioni in cui si sono accumulate le terre di superficie, di solito con al centro uno strettissimo camino invisibile per il deflusso delle acque: per il resto, i campi hanno una ventina di centimetri di terra che posa su roccia calcarea profonda centinaia di metri.
Innumerevoli le mine necessarie a preparare le fondamenta della casa, e soprattutto la cantina sotterranea, dove mio padre preparava un vino che, sia pure da lui arzigogolato con la massima buona volontà e pur provenendo dalla vigna filosofica da lui impiantata dietro casa, risultava orrendo. Nessuno naturalmente osava farglielo osservare.
Sul terreno di proprietà della casa c'è una bella pineta che si apre al di là di prati verdeggianti e querce e cedri deodara, e bellissimi cespugli di sommacco rosso fuoco. Lì, una volta all'anno, i miei genitori organizzano un cocktail con decine di invitati, in restituzione di una serie di inviti ricevuti durante l'anno. Papà è una personalità nota in città, ed anche se indifferente, persino insofferente e restìo alle lusinghe sociali Vip (sostenuto da mia madre che odia doversi addobbare ed ingioiellare per poi partecipare ad insulsi chiacchiericci mondani), almeno ogni tanto si trova a dover invitare le bella gente cittadina per intrattenerla con cocktails e pasticcini. Nella pineta al momento girellano eleganti signore, presidenti di banche, industriali, nobildonne e cavallerizzi, tutti intenti a godersi il party.
Il destino vuole che io arrivi al cancello di casa proprio adesso, dotato di braghe lilla, capelli fino alle spalle e barba e baffi ed un cenciosissimo sacco a spalla, dopo otto mesi di India. Mi sento un po' fuori posto.
Papà mi vede da lontano, non si sorprende più di tanto, si avvicina, mi sorride e dice: "Ma non dovevi essere in Giappone?"
Mamma mi abbraccia, storce il naso e consiglia: "Sarà meglio che ti faccia una doccia: c'è un po' di gente..."
Be', tutti gli ospiti sanno che l'avvocato mio padre ha un figlio un po' sui generis, uno che non ha seguito le orme come tradizione vorrebbe e che finito il liceo e dopo qualche anno di università ha abbandonato la strada battuta per esplorare terreni ignoti. Tuttavia, avendo io frequentato in precedenza le varie feste dei diciott'anni delle debuttanti ragazze cittadine ed avendo indossato lo smoking quando necessario, e la Società dei Concerti nelle gelide serate invernali quando obbligato, a quanto sembra posso essere accettato nonostante la mia eccentricità, ed anzi essere addirittura oggetto di curioso interesse.
"Oh!" Mi fa la signora Borromeo, un'antica gentildonna truccata e ingioiellata che sostiene con eleganza il flute Baccarat. "Quanto vorrei che mio nipote fosse come te! Quanto mi piacerebbe che mostrasse un po' di iniziativa, un po' di spirito d'avventura..." Conosco il rampollo. Non è tanto male, ma è incastrato in una famiglia di industriali, fabbricanti di catene ed altre acciaierie, troppo danarosi per permettere all'erede di deflettere dalla retta via.
Divoro grandi quantità di deliziose tartine, bevo un bel po' di champagne e poi, lemme lemme, mi dileguo nella mansarda che a suo tempo mi vide arrovellarmi sul Chiarugi intento a studiare le vene e le arterie che circondano il ginocchio. Altri tempi, quando si favoleggiava che diventassi medico, prima che la ventata psichedelica spazzasse via ogni speranza accademica ed ogni ancoraggio socialmente corretto.
Amo Trieste, è una città bellissima e piena di ricordi e di biografia. Forse persino troppa. Non è qui che posso disegnare il mio destino, quindi, ciao mamma, ciao papà, ci vediamo presto.
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