INDIAN TRAIL 5 L'ultimo bacio.

         INDIAN TRAIL  5   L'ultimo bacio.

E’ vero che non pago l’affitto, ma devo pur lavorare per campare. Mi presento all’ufficio governativo di collocamento dove una signora anziana e gentile mi chiede quali siano le mie capacità e preferenze. “Un lavoro all’aperto” dico io “tipo giardiniere…” Dopo tre giorni mi chiamano: sono assunto come magazziniere al centro distribuzione viveri e tessili che rifornisce quotidianamente sei ospedali dell’East End, fra cui il London Hospital ed il Mile End, che sono enormi.

La mattina preparo i pallets con gli ordini arrivati il giorno prima, tanti chili di riso, tante scatolette di oxtail soup, svariati cartoni di Marmite, quella diabolica pasta bruna con cui qui si condisce quasi tutto … Mi devo destreggiare fra montagne di ogni tipo di viveri. E naturalmente è mio compito scaricare i camion in arrivo ed immagazzinare le scorte. La consegna più temuta è quella della farina, che arriva in dozzine di sacchi da cinquanta chili ciascuno, cento libbre, sacchi che vengono lasciati cadere da un paio di metri dritti sul groppone dello stock-roomer, che guarda caso sono io. Occorre anche imparare  velocemente il significato di alcune parole misteriosissime, tipo “raisins” –cioè uva passa- o “halves” che è il plurale di half, vuole cioè dire “varie metà”. Mi vergogno un po’ a chiedere, gli inglesi sono lievemente diciamo così, discriminatori e gradiscono molto spernacchiare l’ignoranza altrui. Mi illumino quando, dopo essermi scervellato per completare l’ordine, vedo finalmente l’etichetta delle scatole di mezze pesche sciroppate: Peaches, Halves. Quanto alle raisins, scoperto che cos’erano, ogni tanto mi imbosco fra pile di sacchi di iuta e piramidi di scatolette, e seduto su qualche soffice balla di riso divoro uvetta in quantità.

   Una mattina arrivo in perfetto orario, –il magazzino sta ad una mezz’oretta da casa- entro nella saletta dove d’abitudine si fa un piccolo intervallo per bere il tè e leggere il giornale prima di cominciare la giornata e noto che tutti mi guardano in cagnesco, con le loro fronti di proletari inglesi aggrottate e malevolenti. Sta a vedere che hanno scoperto che mi mangio l’uvetta. Magari ho scambiato qualche vivero essenziale dal nome impossibile ed ho spedito al suo posto qualche inutile vivanda? Nulla di così banale: l’atroce verità è che l’Italia, a mia insaputa, ha sonoramente battuto l’Inghilterra in una importante partita di pallone, ed io vengo ritenuto responsabile. Non mi sembra il caso di scusarmi, ma nemmeno di rimanere lì a farmi picchiare: gonfio di malcelato orgoglio nazionalistico vado a studiare un altro po’ di etichette.

 

La sera tornando a casa passo in mezzo ai banchetti di un mercato rionale, e da un banco mi fanno l’occhiolino delle bellissime aringhe di cui ignoro il nome. Il nome è kipper, come imparo ben presto da Mark, perciò dopo qualche ulteriore transito esplorativo ed una breve sosta per una mezza pinta di birra (sto raccogliendo il coraggio di esprimermi ad alta voce in mezzo ad un impietoso mercato inglese) sfodero un “Two kippers, please”. L’infame dall’altra parte, invece di sorridermi e darmi le aringhe, mi fa: “What?” anzi, “Huach?”. “Two KIPPERS, please” dico io, reso ormai un po’ bellicoso dalla timidezza. “Two huach?” mi fa quello, sempre più odioso. “Two of those, please”, e allungo il dito verso i pesci ignari. “Aaah! -fa quello- kippers! Here, two kippers, sah (sarebbe: sir)”. Mi chiama sir, ma suona un po’ una presa per i fondelli più che un segno di grande rispetto. Non importa. Ho capito che le aringhe, in Inghilterra, si chiamano “quelle là”. Stasera le faccio al forno, se l’impiegato modello lo libera dall’onnipresente cavolo puzzone.

  

E’ un periodo decisamente psichedelico, non so se siete pratici, piuttosto pacifico se non si bada a qualche coltellata estemporanea, e per quanto fermentanti, questi luoghi sono tolleranti e rispettosi della privacy. Quando sono libero dal lavoro attraverso la città come in un sogno, esco dalla metropolitana  in luoghi lontani, Kew Gardens, lo Zoo… Uno dei miei preferiti è un parco verdissimo dalle linee gentili, gente con l’aquilone e sullo sfondo un gruppo di giocatrici di bocce in divisa bianca. Ammiro le linee degli aquiloni in volo, le loro scie, ascolto i suoni lontani, le voci laggiù, il traffico come un alone nello sfondo… Mi si avvicina un poveraccio, gli do un po’ di monete, devono essere un bel po’ visto che si caccia il pollice unto in bocca e mi fa una specie di segno umidiccio sulla fronte. Dicono che nei sogni da svegli ogni particolare sia importante. Spero che la sensazione appiccicosa sul mio terzo occhio sia il segno di una riuscita benedizione, oltre che l’impronta di fish and chips.

   Ormai siamo alla fine di agosto, e c’è in programma un party gay a casa nostra organizzato da Mark e Roberto, la coppia che vive sul mio stesso pianerottolo. Siamo invitati anche noi non-gay, aiutiamo con qualche addobbo e qualche dolcetto. Comincia ad arrivare una varietà di personaggi mai vista prima. Immagino sappiate quanto strani posso/ano essere gli/le inglesi quando ci si mettono. La gamma di abiti ed abitini è vasta e multicolore, i trucchi e le pettinature esageratamente fantasiosi. Musica a tutto volume, joints ad ogni angolo, scherzi e risate… Sono sul divano, uno tipo Boy George mi accarezza una coscia; molto delicatamente gli allontano la mano… Suonano alla porta. Polizia. I poliziotti guardano giù per le scale dove siedono in parecchi, e dicono di abbassare il volume. Il fumo si taglia col coltello, ma viene del tutto ignorato. Se ne vanno. Non ci si sta male, a Londra.

 

   Pian piano il mio gruzzoletto ingrandisce: a forza di birra e kippers sono riuscito a risparmiare un pochino e comincio a sentire che non rimarrò a lungo a Londra. Visito un sacco di musei e gallerie, persino il museo delle case delle bambole, e quello delle locomotive, e la stele di Rosetta, e la pazzesca sala delle porcellane cinesi del Victoria and Albert, che è un sogno di forme e colori infiniti. Una sera di grande audacia invito persino a cena la bella fidanzata del bassista, che mi porta in un ristorante indiano lì vicino. E’ il mio primo pasto indiano, e la mia compagna è molto graziosa. Mentre mangio qualche strana pietanza ignota e converso amabilmente annuendo con vigore ogni volta che non capisco qualcosa, comincio a sentire un calore salirmi da dentro verso il collo e le guance, un fuoco che presto raggiunge la radice dei capelli, la infiamma e si sviluppa in copiosissime gocce di sudore sulla fronte. E’ l’effetto strisciante di qualche droga orientale che, inavvertita dal palato, una volta giunta a destinazione dà origine ad un’inaspettata reazione dirompente ed insopprimibile. E’ impossibile corteggiare una bella ragazza quando si suda a fontanella e le labbra sembrano emettere fiammate invece di carezzevoli frasi, sia pure mal pronunciate.  Mi viene da ridere, fra le lacrime che sgorgano copiose, e forse il cardamomo e la curcuma hanno un effetto esilarante perché non mi posso più fermare. Usciamo ridendo nella buia stradina dell’East End, a braccetto, come due buoni amici che sarebbero rimasti tali. Mi bacia sulla porta di casa, è come il posarsi di un petalo fresco sulle mie labbra bruciate.

L’ultimo bacio di Londra.

Sono pronto ad impacchettare le mie poche masserizie, a salutare la casa che mi ha ospitato per quattro mesi, dire ciao a Mark, Henry e gli altri, ed a spiccare il balzo verso l’India.

 

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