Indian Trail, 3 terza parte
INDIAN TRAIL 3
Il cambiamento implica la presa di coscienza ed il conseguente abbandono di alcuni compromessi velati d'ipocrisia di cui finora ho accettato la presenza nella mia vita. L'iscrizione all'università, per esempio, per cui non provo alcun interesse e che mi serve solo a ritardare il servizio militare. Oppure l'agenzia di pubblicità, di cui poco mi importa se non per motivi puramente economici. Insomma, per farla breve vengo chiamato alle armi, indosso la divisa ed entro a far parte di una di quelle che Ronald Laing definiva "istituzioni totali", come gli ospedali per alienati, le galere, e tutti quei luoghi dove tendenzialmente si cessa di essere se stessi per diventare una specie di numero, la cui personalità è inutile e la cui espressione è di solito dannosa.
Ecco dunque che per una quindicina di mesi mi ritrovo a fare il militare, prima a Siracusa che sta a milleseicento chilometri da Trieste, umile fante cui vien data in dotazione una divisa fuori misura, scarpe da ginnastica tre numeri più grandi (tanto poi le scambi con qualcuno: è l'istruzione), anfibi che sembrano colati nell'acciaio e magliette di lana caprina che sembrano carta vetrata. Avrei potuto chiedere di fare la Scuola Ufficiali, ma da buon figlio della mia generazione preferisco far parte della truppa. E la truppa veste così.
Dopo due mesi di addestramento reclute ognuno di noi viene assegnato altrove, secondo le sue attitudini. Si disgregano le amicizie formatesi nelle difficoltà e ci si prepara ad un futuro incerto. Dei miei colleghi quello dal futuro più sfortunato è Cozzolino, grande scalatore e speranza dell'alpinismo italiano, cui viene permesso di allenarsi arrampicandosi sulla parete esterna del castello a picco sul mare che ospita la caserma: lo manderanno fra gli alpini, dove morirà cadendo nel tentativo di aprire una nuova via su qualche micidiale parete, per conquistarsi una licenza premio.
Io ho un titolo di studio di liceo, e vengo spedito a Napoli, alla Scuola di specializzazione Trasmissioni, cioè al corso più lungo che ci sia, sedici settimane.
A Napoli, tutti in fila, un sergente maggiore ci chiede a quale mansione pensiamo di essere adatti: confido di essere un musicista, nella speranza di essere assegnato alla banda del reggimento, e magari imparare ad esempio il trombone, o il clarinetto: ma ecco che... "Ah, musicista eh? Bene bene, arrivi proprio al momento giusto!" Mi viene assegnato il compito di marciare al centro del plotone e scandire a gran voce il ritmo di marcia: un duè, un duè, un duè, cadenza!
Il corso dura sedici settimane, deve trasformare ignari fantaccini in provetti trasmettitori e radio operatori. Stiamo seduti per ore attorno ad un tavolo con le cuffie in testa mentre il sergente maggiore aziona una macchinetta che ci trasmette senza sosta punti e linee dell'alfabeto Morse, e noi dobbiamo trascrivere in chiaro su quadernetti. Trasmette sempre più veloce, impossibile stargli dietro. Dopo due o tre ore siamo tutti rimbecilliti, pronti alle lezioni sul funzionamento delle radio, che sono le G9 dismesse dall'esercito americano. Ci si aspetterebbe che le radio, per obsolete che siano, siano ansiose di comunicare fra loro: ma i collegamenti non riescono mai, o se per miracolo hanno successo si sentono sfrigolii e scoppiettii, ma assai poche parole.
Il servizio militare cancella amori ed amicizie, ed è troppo lungo per esser vissuto come una sia pur prolungata apnea da cui poter sperare di riemergere indenni alla vita precedente. Ci sono innumerevoli momenti di noia, immersi come si è in un mare di inutilità; e si fa esperienza di molti assurdi episodi spesso ripugnanti, come la mozzarella che mi cade dal piatto e rimbalza come una pallina da tennis, o la coscia di pollo lievemente sanguinante. Resisto soprattutto sorretto dall’idea che sto pagando il prezzo per conquistarmi la libertà offerta da un passaporto senza limiti di tempo, visto che quello che rilasciano prima del servizio vale solo sei mesi, a scanso di diserzioni.
Arriva il giorno del congedo, tutti felicissimi tranne un paio di ufficiali di carriera, in particolare un tenente a due stelle che di carriera ne sta facendo assai poca, e che ad ogni congedo tende ad impazzire perchè non tollera di vedere i suoi sottoposti andarsene tutti contenti. La notte prima del giorno fatidico entra in camerata ad ore antelucane e picchia con un ferro i letti a castello, urlando improperi e facendo un baccano terribile. Ma chi se ne importa? Siamo liberi!
La cerimonia di addio alle armi è breve, coreografia semplice, personale e simbolica: mi cambio in macchina, jeans e camicia, faccio un fagotto con la divisa, lo lego stretto stretto con la cravatta di ordinanza, e faccio volare il tutto in un bel fitto di ortiche, sotto il ponticello su cui mi aspetta la mia R4. La breve parabola del pacco verde mimetico è uno dei più bei regali che mi sia mai fatto. Fra qualche giorno, ormai in possesso di un passaporto nuovo fiammante, volerò a Londra dove intendo fare un po’ di quattrini per continuare il lungo viaggio destinato a portarmi lontano da ogni vita precedente.
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