La notte dell'orso
La notte dell’orso.
California del Nord, Bell Spring Road, un ranch sperduto fra le
alte colline a quattro ore da San Francisco, sulla destra della 101.
Nella notte profonda uno sparo improvviso
ammutolisce civette e gatti selvatici, echeggia nella valle per disperdersi
nella lieve nebbia sospesa fra querce ed abeti.
Da parecchi anni Eagle si era trasferita
nella sua capanna di legno sotto l’immenso abete Douglas alla curva della pista
verso la Delicate Lodge. Per arrivarci si passava davanti al recinto dei lama,
dove due femmine pascolavano insieme ad un piccolo di un paio di mesi ed un
grande maschio. Varie altre baite erano dislocate in giro per il bosco, tutte a
ragionevole distanza dalla casa madre che ospitava gli spazi comuni come la
libreria, lo studio di Capo Wolf, varie postazioni individuali dove alcuni di
noi tenevano computers ed altri aggeggi, il grande schermo televisivo e,
presenza più importante di tutte, la macchinetta Faema, originale italiana, per
il cappuccino mattutino. Chissà come
era arrivata, la Faema, fra gli abeti colossali della coastal range –la catena
di monti e colline che prepara al grande balzo delle montagne rocciose.
Nella casa madre abitava solamente Rocky,
che ne era il guardiano: tutti gli altri membri della piccola tribù si
ritiravano per la notte nelle rispettive minuscole casette di fogge varie,
qualcuna costruita con presse di paglia, sparse nelle vicinanze. Lo stesso Capo
Wolf possedeva una grossa ed anziana roulotte argentata, che con grandi fatiche
era stata portata in una valletta intima e nascosta e dove si ritirava a fine
giornata insieme a Fawn, sua consorte e controparte femminile negli
insegnamenti e cerimonie. Eagle era però la sola ad aver costruito la sua casa
sul versante sud della collina, dopo il recinto dei lama e dei tacchini, ed era
dunque particolarmente isolata.
I fruscìi notturni, il canto della brezza
fra le foglie delle querce secolari, le ombre degli alberi altissimi
accarezzavano la capannina dove Eagle riposava nel suo nido. Dietro la sua
testa una finestra alta e stretta andava dal pavimento al tetto ed incorniciava
il sentiero illuminato dalle stelle e da uno spicchio di luna, e se lei non
fosse stata immersa nel sonno che precede l’alba avrebbe potuto notare che il
lama maschio, quello che sputava in faccia a Forest ogni volta che lo vedeva,
pattugliava nervosamente il recinto percorrendolo su e giù e soffermandosi ogni
tanto con orecchie tese e froge aperte e
frementi ad annusare l’aria.
Uno schianto
improvviso irrompe nel vellutato quasi silenzio, Eagle si sveglia di colpo,
alza la testa e vede che la maniglia della porta della capanna si muove
violentemente in su e in giù, scossa e manovrata dall’esterno da qualcuno che
cerca di entrare. Si rizza a sedere sul letto, allunga la mano e afferra la
pistola che sta in una scatola accanto al letto. Non si sta da soli e senza
armi a dormire sulle montagne della California.
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Per quanto sia
addestrata all’uso delle armi, soprattutto carabina e pistola, ed nonostante da
anni tutta la piccola tribù si alleni al guerresco gioco del paintball nei
boschi sparandosi l’un l’altro proiettili di gomma piena di liquido colorato,
Eagle avverte il panico salire e farsi strada fra le molte e confuse emozioni.
Lo scuotimento della capanna continua insistente e l’idea che là fuori ci sia
un orso che tenta di entrare richiede una reazione decisa ed adeguata. Essere
addestrati serve proprio a questo: a mantenere freddezza e funzionalità nei
momenti di grave crisi.
Seduta sul letto Eagle prende un cuscino e se
lo piazza fra spalla ed orecchio e si tappa l’altro orecchio con la mano. Poi
spara un colpo in aria mirando al trave di colmo onde non bucare il tetto. Il
rumore è fortissimo e lo scuotimento cessa di colpo, la maniglia smette di
agitarsi ed il silenzio avvolge capanna e dintorni. All’orso non dev’esser
piaciuto quello scoppio improvviso, non è un animale stupido, conosce benissimo
il rumore delle armi da fuoco, il loro odore, la loro pericolosità, e potrebbe
essersene lestamente andato.a cercare prede meno reattive. E’ possibile, forse
probabile che si sia allontanato davvero, e che nonostante il tremore Eagle
possa riprendere il sonno interrotto. Ma in realtà non si può star tranquilli
quando c’è un orso nei dintorni: è un animale imprevedibile, determinato,
fortissimo, e se ha sentito odore di cibo o se ha trovato i resti della cucina
stoltamente abbandonati da qualche parte è quasi impossibile levarselo di
torno: se poi grazie ad esperienze
precedenti ha imparato il significato di una maniglia ed ha preso un po’ di
confidenza con gli umani, sa benissimo che intorno ai loro insediamenti c’è
quasi sempre qualcosa di appetibile, e spesso si tratta di bocconcini che non
si trovano in natura: una vera festa per un onnivoro. Impossibile tenerlo lontano.
Il lettino di
Eagle sta sul pavimento di legno e la finestra dal vetro fisso va da terra al
tetto, proprio dietro il cuscino: è sufficiente, da distesi, alzare un po’ il
mento per vedere l’esterno capovolto. Un rumore, un ansito: Eagle gira la testa
e fuori dalla finestra, vicinissimo, ecco l’immenso muso dell’orso che col naso
tocca il vetro mentre con un occhio e poi con l’altro scruta l’interno della
capanna. Lo sguardo giallo sembra fissarsi sul movimento, l’espressione è un po’ perplessa, come se l’assenza
di odore di cibo contraddicesse nozioni precedenti, forse risultato di qualche
visita a tende di campeggiatori… Non è il caso di indugiare: una testa di orso
larga mezzo metro, ispida e rustica, con quel ghigno che si ritrae per annusare
meglio scoprendo zanne lunghe come un piccolo dito, induce a rapide decisioni.
Altri due colpi di pistola, speriamo che il trave di abete non crolli, e l’orso
galoppa via, questa volta con una lunga sgroppata verso valle, dove il sentiero
scompare fra alberi e forre.
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Mattina presto, il cielo turchese ed
arancione: siamo in quattro o cinque ad aspettare il nostro turno alla
macchinetta del caffè, o a coccolare il cappuccino appena conquistato. Dal
balcone vediamo arrivare Eagle, che di solito si presenta all’appuntamento
mattutino molto elegante e curata, tutta scarmigliata e con la gonna lunga
spiegazzata e lo scialle di traverso– indossa sempre gonne lunghe e scialli,
non si capisce come faccia visto che siamo in mezzo ad un bosco - . Racconta la
storia, tutti l’ascoltiamo a bocca aperta, aggrappati ai nostri cappuccini come
ancore di salvezza. Mentre procede, ognuno si aggrappa al proprio cappuccino
come fosse un’ancora di salvezza. Son brutte notizie, queste. Sappiamo che un
orso una volta trovata la strada non smette di gironzolare intorno alle case,
come se avesse perso quella onesta, istintiva repulsione verso gli umani che
contraddistingue tutti gli animali selvatici, e sappiamo pure che non c’è
praticamente modo di indurlo ad andarsene definitivamente. Tutti ricordiamo che
l’anno scorso un orso bruno, forse lo stesso, ha fatto irruzione nel recinto
del pollaio ed è stato sorpreso da uno dei ragazzini, Sage: l’orso se ne stava
ritto in piedi in mezzo ai polli terrorizzati, con un pollo per mano ed altri
due schiacciati contro il petto enorme.
Il consiglio della piccola tribù si è
riunito ed ha deliberato: un orso che si comporta così, dispiace dirlo, va
abbattuto. Non c’è altro modo per
liberarsene: continuerà a ritornare e ritornare, e prima o dopo provocherà una
tragedia, perché è imprevedibile, pesa
oltre duecentocinquanta chili, corre due volte più veloce del pièveloce Achille
e se per caso riesce a metterti le zampe addosso, non c’è speranza: le
sue braccia sono grosse come le nostre gambe e le gambe come il nostro petto. e
con una sberla ti stacca la testa. Perciò bisognerà attirarlo in una trappola ben
congegnata, qualcosa che non possa subodorare, e piazzargli un paio di colpi di
carabina sotto l’ascella. La testa sarebbe un buon bersaglio, me l’osso della
fronte è sfuggente, oltre ad essere massiccio, e può deviare un proiettile:
perciò non si spara alla testa, ma al cuore e di fianco. Se aspetti di
vedertelo in piedi e di fronte, per mirare meglio, in genere è troppo tardi, e se spari ad un animale
devi esser sicuro di ucciderlo. Non vuoi che, ferito, se ne vada a morire di
infezione nei boschi, o, peggio ancora, che ti si rivolti contro.
Non ho assistito all’agguato, ormai ero
partito per ritornare in Europa, e dunque non conosco i particolari
dell’evento. Sicuramente però fu spiegato al bosco ed ai suoi abitanti che il
sacrificio del grosso animale era dovuto a necessità e non a divertimento.
Nella nostra scuola l’uccisione era considerata un atto sacro: inevitabile ma
da non prendersi mai alla leggera.
Rocky, Eagle e Moose organizzarono la
trappola lasciando un po’ di cibo sullo spiazzo dove a volte si mettevano gli
avanzi per i corvi, e quando l’orso si avvicinò due carabine spararono
contemporaneamente, fulminandolo.
La
sua pelle adesso giace immensa sul pavimento della libreria della casa madre,
ed Eagle quando transita per il mattutino rituale del cappuccino ne accarezza
la testona ormai inoffensiva con le frange della lunga e ben stirata gonna.
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